Un think tank australiano sonda le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang ed emerge che i trasferimenti di uiguri ai lavori forzati sono in aumento
di Ruth Ingram
Dopo il rivoluzionario rapporto uscito in febbraio e intitolato «Uyghurs for Sale», ulteriori indagini dell’ASPI (Australian Strategic Policy Institute) hanno portato alla luce prove che dimostrano come, nonostante la pubblicità negativa ricevuta dalle sue politiche, il PCC abbia spudoratamente intensificato la sua azione. Decine di migliaia di uiguri, molte volte reclutati direttamente nei campi di concentramento, vengono ammassate sui treni. Per soddisfare l’ondata di quote punitive stabilite dal regime un numero crescente di persone viene mandato a lavorare in fabbriche e botteghe dove, nel cuore della Cina, si producono merci per conto di note aziende occidentali.
Nel rapporto originale redatto dall’ASPI intitolato «Uyghurs For Sale» sono stati identificati 83 brand e marche a livello internazionale che beneficiano del lavoro forzato degli uiguri almeno in una fase della loro catena di approvvigionamento. Sono coinvolte le principali società tecnologiche, automobilistiche e della moda di tutto il mondo, tra cui nove Paesi europei.
Il 19 maggio condividendo le loro scoperte nel corso di un webinar organizzato da Reinhard Bütikofer, presidente del Partito Verde al parlamento europeo e portavoce degli affari esteri, i componenti del gruppo di ricerca ASPI hanno reso noti i fatti più scioccanti.
Avvalendosi di materiale open source e siti web governativi cinesi, la ricercatrice Vicky Xu ha scoperto che, lungi dal tentare di nascondere la campagna, il PCC si vanta apertamente online delle proprie attività. La studiosa ha aggiunto: «Il governo cinese si gloria di allontanare gli uiguri dalle loro case e di portarli in una provincia lontana dove viene dato loro un mestiere, dove lavorano, sono costretti a lavarsi i capelli e non possono indossare il turbante».
Grazie a informazioni di pubblico dominio il team ASPI ha rilevato un’accelerazione nel flusso di reinsediamento di uiguri, specialmente nelle province costiere.
Nel rapporto Xu ha descritto i dormitori separati (da quelli degli altri lavoratori) e le lezioni ideologiche e di mandarino dopo il lavoro, aggiungendo: «Ovviamente non possono praticare la loro religione» inoltre ha parlato della sorveglianza costante, gli uiguri infatti sono raggruppati in gruppi di 50 persone ognuno dei quali è controllato da un sorvegliante. Xu ha detto: «Spesso agenti di polizia li scortano fino alla fabbrica e li osservano mentre sono al lavoro», scrivono persino rapporti sui loro pensieri. La donna ha concluso quasi incredula: «Il livello raggiunto dal governo cinese è incredibile, si tenta di controllare il pensiero di queste persone».
Xu ha inoltre affermato che il conteggio delle aziende coinvolte non si ferma a 83 e ha precisato: «Il loro numero è certamente maggiore», ha anche sottolineato che non sempre è chiaro a quale livello ciascuna società sia coinvolta nel processo produttivo e ha osservato che le aziende stesse si pubblicizzavano come componenti della catena del valore, confermando così la possibilità che i marchi internazionali stiano effettivamente beneficiando del lavoro forzato.
La donna ha citato un rapporto della giornalista di The Washington Post Anna Fifield che, all’inizio dell’anno, ha visitato la Taekwang Shoe Company a Qingdao intervistando chiunque potesse. La giornalista ha confermato che 800 operai uiguri sono di fatto reclusi dietro alte recinzioni e filo spinato sotto lo sguardo delle telecamere di sorveglianza 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e impossibilitati a tornare a casa. Xu ha commentato: «Questa azienda è il principale fornitore di Nike e produce 8 milioni di paia di scarpe ogni anno. Queste persone non sono autorizzate a lasciare i locali senza permesso, non possono tornare a casa per le vacanze, non hanno la libertà di movimento, seguono corsi di indottrinamento e ricevono salari inferiori rispetto ai loro colleghi han». La donna ha aggiunto che le loro famiglie nello Xinjiang vengono regolarmente visitate da funzionari governativi e che ogni lavoratore è stato costretto a installare nel proprio telefono un’applet per il monitoraggio. Xu si domanda: «Se davvero sono felici di lavorare lì, perché è necessaria una tale sorveglianza?» e ha ricordato la cinica campagna pubblicitaria condotta dalla Nike per coinvolgere le donne musulmane nello sport mentre allo stesso tempo chiudeva un occhio sulle donne musulmane uigure che lavorano coercitivamente, «Quello non era sufficiente e soprattutto ci vuole coerenza».
A proposito di Foxconn, un’altra azienda in cui lavorano gli uiguri e nota per i suicidi e i maltrattamenti dei lavoratori, Xu osserva: «Se anche normalmente gli uiguri che ci lavorano sono privati dei loro diritti chissà cosa succede durante la pandemia».
Un altro caso riguarda un’azienda che produce per conto del marchio tedesco Adidas e che è risultata complice del trasferimento di centinaia di uiguri da un «centro di detenzione» nello Xinjiang a una fabbrica nella provincia costiera dell’Anhui. Tenuto conto della natura forzata del lavoro e della segretezza in merito alle loro condizioni Xu teme per la sicurezza dei lavoratori uiguri.
Nel rapporto vengono nominate molte aziende tra cui le tedesche BMW, Bosch, Mercedes, Puma e Siemens, l’italiana Candy, le svedesi H&M e Electrolux, la filippina Jack and Jill, la francese Lacoste e la spagnola Zara.
La risposta del governo cinese al rapporto è stata brutale e la politica governativa è stata giustificata in quanto necessaria per combattere la povertà e per fornire opportunità di lavoro ai «diplomati» dei campi per la trasformazione attraverso l’educazione. Le condanne del ministero degli Esteri, le denunce del Global Times e del People’s Daily non si sono fatte attendere, tuttavia ricerche indipendenti condotte dalla U.S. Congressional-Executive Commission on China citate tra l’altro dalla Associated Press e dal South China Morning Post (SCMP) non solo hanno confermato le conclusioni del rapporto, ma il SCMP è andato oltre fornendo ulteriori prove dell’accelerazione della campagna, che si è spinta fino a trasportare gli uiguri nella provincia dell’Hunan, uno degli epicentri del COVID-19, per farli lavorare proprio nel momento di massima diffusione del virus. Xu ha aggiunto che le quote stabilite dal governo centrale per costringere i governatori delle varie province a impiegare un numero crescente di uiguri indicano che la situazione «può solo peggiorare».
Il dottor James Leibold, professore associato e capo dipartimento nella La Trobe University di Melbourne in Australia, nonché coautore del rapporto ASPI, ha sottolineato che nel rapporto non si sostiene affatto che tutti gli uiguri impiegati in tali aziende lavorino sotto costrizione. I trasferimenti di manodopera uigura sono iniziati nel 2000 e molti di loro erano felici di lavorare lontano da casa. Tuttavia Liebold aggiunge che a partire dal 2017 – con la nomina di Chen Quanguo e l’internamento nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione di un numero di uiguri che potrebbe raggiungere i 3 milioni di unità – un numero considerevole di prove dimostra che molti uiguri «potrebbero lavorare contro la propria volontà». L’accademico ha dichiarato: «Acquisiamo tutte le prove che riusciamo a reperire», aggiungendo che le conclusioni del rapporto si basano su «prove parziali», ma che la diffusa intimidazione delle famiglie dei lavoratori, le minacce di essere rimandati in un campo di concentramento unitamente alle discriminazioni salariali e all’intensa sorveglianza parlano da sole.
Secondo Kelsey Munro, analista senior dell’ASPI e coautore del rapporto, gli ordini del governo centrale di spostare gli uiguri fuori dallo Xinjiang stanno rendendo la vita difficile anche alle stesse aziende che rischiano la chiusura se si rifiutano di collaborare in quanto, a suo avviso, la non partecipazione non è un’opzione.
Né Vicky Xu né i gli altri coautori auspicano una reazione impulsiva contro tutto il lavoro degli uiguri perché ciò secondo Xu: «Sarebbe disastroso». Tuttavia il team di ricercatori auspica che le aziende in affari con la Cina siano più consapevoli della propria catena di approvvigionamento aggiungendo: «Le società straniere dispongono della leva per agire».
Vicky Xu ha dichiarato che purtroppo le risposte al rapporto fornite dalle società straniere sono state deludenti e alcune hanno minacciato azioni legali. Altre come Microsoft, Apple e Amazon si sono impegnate a occuparsi ulteriormente della questione, tuttavia la migliore speranza di cambiamento è rappresentata da attivisti, consumatori e governi coraggiosi disposti a mettere i valori e i principi morali al di sopra del denaro e, se necessario, ad affrontare l’ira e le reazioni di Pechino. Xu ritiene che la strada da percorrere sia quella delle campagne informative per indurre i consumatori a fare pressioni sulle aziende e a manifestare il loro dissenso. Gli Stati Uniti d’America, l’Unione Europea e in una certa misura il Regno Unito hanno alzato la testa e risolto i problemi in modo mirato, tuttavia Kelsey Munro ha deplorato le difficoltà incontrate nello spingere il mondo intero a far sentire la propria voce. La ricercatrice auspica la diffusione di un seme di cambiamento tra i cinesi han, ma se ciò non accade vi sono ben poche speranze almeno nel prossimo futuro.
Vicky Xu ritiene che la mancanza di simpatia per il popolo uiguro sia prevalente nel Paese e la criminalizzazione di un’intera etnia, guidata dal razzismo e dalla paura, stia esacerbando la xenofobia profondamente radicata nella nazione e conclude: «Credono di poter condurre una vita prospera e pacifica solo sottomettendo gli uiguri».