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«Welfare for Autocrats», come la Cina usa l’assistenza pubblica per sorvegliare la gente

15/06/2020Massimo Introvigne |

Un libro di Jennifer Pan mostra come il PCC, con la scusa di «eliminare la povertà», usi il piano di sussistenza «Dibao» per sorvegliare i dissidenti politici e religiosi

di Massimo Introvigne

Indice:

  • l fallimento del welfare cinese
  • Arriva il Dibao
  • Rieducazione a domicilio
  • Il Dibao usato come strumento di repressione delle religioni vietate
  • Qualche problema per il PCC

Welfare for Autocrats

Il fallimento del welfare cinese

Welfare for Autocrats: How Social Assistance in China Care for Its Rulers (Oxford University Press, New York 2020) è uno studio brillante, ma molto tecnico in cui i lettori non si aspetterebbero di incontrare riferimenti alla religione. Invece ci sono e sono importanti.

Il libro di Jennifer Pan, professore assistente nella Stanford University, è uno studio sul programma Dibao (低保), ovvero il «sistema di garanzia della sussistenza», salutato come «il più grande programma di trasferimento di denaro incondizionato al mondo», nonché uno dei due pilastri del welfare cinese che mirano alla «eliminazione della povertà». L’altro pilastro è il programma Tekun (特困 人员 救助), ossia l’«assistenza per gli indigenti». Negli ultimi anni, però, Tekun ha perso importanza a vantaggio di Dibao.

Nonostante l’enfasi posta nell’assistenza ai poveri, le statistiche cinesi evidenziano disuguaglianze acute. Alla fine degli anni 1990, nonostante l’espansione economica, il Paese contava «fino a 60 milioni di disoccupati urbani». Entro il 2015, «la quota di reddito nazionale detenuta dal 10% della popolazione più agiato è salita al 41%, mentre quella detenuta dal 50% più povero è scesa al 15%». La propaganda cinese può obiettare che gli Stati Uniti d’America presentino numeri simili, ma gli Stati Uniti non sostengono di essere un Paese socialista ed egualitario.

Pan spiega che «i sistemi di welfare cinesi hanno esacerbato piuttosto che ridotto il divario tra ricchi e poveri», e questo perché i ricchi e i corrotti sono diventati abili nel manipolarli.

Arriva il Dibao

Il programma Dibao è stato presentato dal PCC come uno strumento per risolvere il problema e introdotto in via sperimentale a Shanghai nel giugno 1993. Il 2 settembre 1997 è seguito il Dibao urbano nazionale e, nel luglio 2007, il Dibao rurale nazionale. I destinatari dei piani hanno raggiunto il picco nel 2003 con 22,5 milioni di persone nelle aree urbane e 53,9 milioni in quelle rurali, prima di diminuire nel 2017 a 12,6 milioni nelle aree urbane e 40,5 milioni in quelle rurali (a confronto, il totale dei destinatari del Tekun era solo di 4,7 milioni).

Il Dibao è simile al controverso «reddito di cittadinanza» recentemente introdotto in Italia. Chi non riesce a trovare lavoro riceve mensilmente una somma di denaro. Il problema è come vengono identificati i cittadini «impossibilitati a lavorare».

In Cina, spiega Pan, si dividono in due categorie. Quelli della prima categoria non sono in grado di lavorare a causa di disabilità personali o di problemi nel mercato del lavoro. Quelli della seconda categoria sono invece disoccupati perché il PCC preferisce che non lavorino e chiede loro di rimanere a casa per essere «rieducati»: appartengono a quelle che il PCC definisce «categorie obiettivo», un’espressione introdotta da Mao Zedong nel 1956. Esiste un elenco ufficiale delle «categorie obiettivo» che comprende «chi è sospettato di far parte di un xie jiao [movimento religioso vietato], ossia denominazioni religiose, società segrete o altre attività religiose illegali».

Rieducazione a domicilio

Secondo Pan, il Dibao è cambiato sostanzialmente nel 1999 dopo le proteste del Falun Gong. La reazione più visibile del PCC è stata la «repressione dura» consistente in «arresti di massa, imprigionamenti ed esecuzioni», ma di fatto il Falun Gong «ha alterato il concetto di stabilità del PCC». Il PCC si è reso conto che «colpire con durezza» era necessario, ma non sufficiente. Dopo le proteste del Falun Gong, il PCC ha rivisto la «Gestione complessiva dell’ordine pubblico», combinando la «repressione» con quella che Pan chiama «infiltrazione» dei sistemi di sicurezza nella cultura, nell’istruzione e nel welfare.

Un altro malinteso ben noto, sostiene Pan, è che in Cina la «rieducazione» avrebbe luogo solamente nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione e in altre istituzioni simili a prigioni. In realtà milioni di cinesi vengono «rieducati» a casa, visitati regolarmente da «gruppi di rieducazione ‒ composti da membri del comitato dei residenti, da capitani di quartiere, da poliziotti locali, da volontari per la sorveglianza di quartiere e da altri fra attivisti e quadri di partito a livello di comunità ‒ incaricati di visitare regolarmente i soggetti da rieducare». La rieducazione richiede così tanto tempo che queste persone non possono avere un lavoro regolare; del resto il PCC ritiene che non sarebbe una buona idea mandarli nei luoghi di lavoro dove possono «corrompere» altri. Così vengono tutti sussidiati dal programma Dibao.

Il programma Dibao consente una migliore sorveglianza e i destinatari devono riferire in dettaglio sulla propria vita quotidiana. Non solo «la sorveglianza è meno evidente quando viene condotta nell’ambito delle interazioni relative alla distribuzione dei benefici», ma si genera un triangolo formato da «sorveglianza, obbligo e dipendenza». Per la mentalità cinese, chi beneficia del programma Dibao si sente poi, almeno in certa misura, obbligato a collaborare con i rappresentanti locali del PCC elargitori di denaro. Sanno anche che i loro nomi vengono esposti pubblicamente nel quartiere e che i loro vicini si aspettano che si comportino come fedeli fruitori del Dibao. Infine, osserva Pan, gli importi che ricevono non sono sufficienti a farli sentire liberi di dedicare tempo per mobilitarsi contro il PCC, ma sono «sufficienti a renderli dipendenti».

Il Dibao usato come strumento di repressione delle religioni vietate

Il modo in cui il sistema funziona è documentato da Pan con un lavoro svolto sul campo dove, forse inaspettatamente, si è spesso imbattuta nella religione. Pan racconta la storia della famiglia Zhao di Xi’an, nello Shaanxi. Zhao era un ingegnere poco interessato alla religione, fino a quando a sua suocera non è stato diagnosticato un cancro. Zhao ha così cominciato a pregare assieme ai seguaci di un gruppo bandito come xie jiao, l’Associazione dei discepoli (门徒 会 Mentuhui). La suocera di Zhao è alla fine guarita e così, nel 2012, tutta la famiglia aveva aderito ai Mentuhui.

Il seguito della vicenda dimostra come il PCC combini la «repressione dura» con altre e diverse forme di gestione dell’ordine pubblico. Zhao è stato arrestato e mandato prima in prigione, poi in un campo per la trasformazione attraverso l’educazione. I suoi familiari, che non sono finiti in carcere, sono stati posti sotto sorveglianza e inseriti in un programma di rieducazione a domicilio combinato con il programma Dibao. Pan ha intervistato una donna di nome Yang che, in quanto capitano del quartiere, è responsabile di aver inserito la famiglia di Zhao nel programma Dibao. La donna ha candidamente riconosciuto che il proprio obiettivo era «salvare» quella famiglia da «credenze pericolose» e che, per ottenere lo scopo, ha usato il sistema del bastone e della carota, aumentando cioè i benefici assistenziali qualora i familiari di Zhao avessero promesso di abbandonare la preghiera e altre pratiche religiose.

Un’altra categoria di persone sottoposte a rieducazione domestica combinata con il programma Dibao comprende chi viene arrestato e rilasciato, ma, secondo le autorità, non è ancora rieducato completamente. Pan ha incontrato due praticanti del Falun Gong fruitori del programma Dibao che si trovano in questa situazione. Forse non erano del tutto persuasi dalla rieducazione, ma «hanno manifestato grande paura e ferma volontà di evitare l’attenzione del governo».

In breve, il programma Dibao è gradualmente «diventato un mezzo di repressione e di sorveglianza», «uno strumento per preservare il potere politico, che non si cura del popolo, ma di chi governa».

Qualche problema per il PCC

L’«assistenza repressiva» fornita dal programma Dibao non è però priva di problemi. Anzitutto è costosa, e le risorse della Cina non sono illimitate. Il risultato dell’utilizzo del Dibao per sorvegliare le «categorie obiettivo» e sostenere la rieducazione domestica è che il numero dei fruitori del programma Dibao aumenta costantemente. D’altra parte aumenta anche il numero di persone che, pur avendo diritto al sostegno del Dibao per motivi non politici, vale a dire i poveri veri, non lo ricevono. Questo provoca proteste che potrebbero minacciare quella stessa stabilità che l’uso politico del Dibao intenderebbe invece preservare.

Tuttavia il PCC non teme «ripercussioni». Il regime non ama le proteste in genere, ma considera quelle di natura economica meno pericolose di quelle che chiedono democrazia o libertà religiosa.

In conclusione, Pan si domanda se l’uso politico del Dibao sia ancora necessario nel 2020, quando nel Paese è stato raggiunto il numero record di 300 milioni di telecamere di sorveglianza, e il sistema di credito sociale e la tecnologia garantiscono un controllo 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 su tutti i cittadini. A differenza di alcuni dei suoi critici, Pan risponde che il PCC sa bene che la tecnologia non sia infallibile. A titolo di esempio ricorda che la banca dati della polizia PoliceNet non è priva di buchi e che non tutti i crimini vi sono registrati. Nonostante tutte le distopie tecnologiche, il PCC è pienamente consapevole che la tecnologia non sostituirà mai completamente la sorveglianza quartiere per quartiere, appartamento per appartamento garantita da funzionari in persona. Per questo la studiosa ritiene che i programmi di rieducazione domestica e l’uso del programma Dibao per la sorveglianza continueranno.

Esperti occidentali di sorveglianza commenterebbero che questa enorme, duplice rete tecnologica e umana, quest’ultima in gran parte basata su spie e delatori, rischia di generare un numero enorme di «falsi positivi», vale a dire di cittadini classificati come pericolosi per il regime, ma che in realtà sono inoffensivi. Pan ritiene però che tutti i sistemi debbano scegliere tra «precisione» (minimizzazione dei falsi positivi) e «informazione» (minimizzazione dei falsi negativi, in questo caso chi può essere davvero pericoloso per il PCC, ma non viene rilevato come tale). Il fatto che nello Xinjiang decine di migliaia di uiguri e altri che non hanno fatto «nulla di anche solo remotamente pericoloso per il regime» siano comunque internati nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione prova, secondo la studiosa, come con Xi Jinping il PCC abbia scelto più il monito della precisione.

In termini meno tecnici, il PCC preferisce tenere in carcere milioni di innocenti piuttosto che lasciare scappare anche un solo soggetto che si oppone al regime.

Contrassegnato con: Persecuzione religiosa

Massimo Introvigne

Massimo Introvigne (Roma, 14 giugno 1955) è un sociologo italiano delle religioni. È il fondatore e il direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), una rete internazionale di studiosi di nuovi movimenti religiosi. Autore di una settantina di libri e di più di 100 articoli nel campo della sociologia della religione, è stato l’autore principale dell’Enciclopedia delle religioni in Italia. Membro del comitato editoriale dell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion e del comitato direttivo di Nova Religio, pubblicato alla University of California Press, dal 5 gennaio al 31 dicembre 2011 ha avuto nell’ambito dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) il ruolo di “Rappresentante per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione, con un’attenzione particolare alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni”. Dal giugno 2012 al dicembre 2016 è stato coordinatore dell’Osservatorio della Libertà Religiosa, istituito dal ministero degli Esteri italiano per monitorare lo stato della libertà religiosa a livello mondiale.

www.cesnur.org/

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