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«Decine di parenti spariti». L’altro 9/11 di Rushan Abbas

08/01/2019Marco Respinti |

Sua sorella e sua zia sono svanite l’11 settembre, sei giorni dopo che la nota attivista uigura aveva denunciato la scomparsa di altri congiunti, tra cui dei bimbi

Rushan Abbas dedica la vita alla difesa della libertà religiosa e dei diritti umani degli uiguri
Rushan Abbas dedica la vita alla difesa della libertà religiosa e dei diritti umani degli uiguri

Marco Respinti

 Ho incontrato per la prima volta Rushan Abbas a Ginevra il giorno in cui il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha esaminato la Cina nell’ambito della Revisione periodica universale. Sono rimasto colpito dal cartello che portava, la foto di una signora uigura di mezza età e queste parole: «Dov’è mia sorella? È un medico, non ha bisogno di formazione professionale». I campi di internamento di massa dello Xinjiang sono, infatti, ufficialmente conosciuti come campi per la “trasformazione attraverso l’educazione”, e mentre le persone vi sono torturate e vi muoiono, il Partito Comunista Cinese (PCC) dice di offrire loro “formazione professionale” per curarle dall’estremismo religioso.

Rushan non è affatto un’estremista. È uigura, musulmana e gentile, e ha una grande opinione dell’Occidente, dove ora vive, nonostante i difetti che l’Occidente ha. In Occidente è una paladina dei diritti umani del popolo cui appartiene. In realtà era un’attivista per i diritti umani anche prima, nella sua madrepatria, ma il proscenio americano le ha dato visibilità in tutto il mondo, oltre a qualche strascico doloroso.

Ex attivista studentesca nell’Università dello Xinjiang al tempo delle dimostrazioni che nel 1985 e nel 1988 chiedevano riforme democratiche, nel 1987 è diventata vicepresidente della Students’ Science and Culture Union di quell’ateneo, organismo fondato dall’attuale presidente del World Uyghur Congress, Dolkun Isa, con il quale da allora collabora strettamente. In California la Abbas è stata tra le fondatrici della Tengritagh Overseas Students and Scholars Association, la prima organizzazione uigura negli Stati Uniti d’America, fondata nel 1993, di cui e poi stata il primo vicepresidente. Lo statuto e i regolamenti di questo sodalizio, che Rushan ha contribuito a redigere, sono poi serviti da modello e hanno svolto un ruolo importante nella costituzione, nel 1998, dell’Uyghur American Association, organizzazione finanziata dal National Endowment for Democracy e di cui la Abbas è stata eletta vicepresidente per due mandati. Quando, sempre nel 1998, il Congresso federale degli Stati Uniti ha finanziato la creazione del Servizio in lingua uigura di Radio Free Asia, a Washington, Rushan è stata la prima giornalista e conduttrice uigura a trasmettere quotidianamente verso la regione uigura.

Nel 2002-2003 ha dunque appoggiato l’Operazione Enduring Freedom, lavorando come traduttrice specialista nella baia di Guantanamo, sull’isola di Cuba. Ha spesso fornito aggiornamenti e informazioni a membri del Congresso statunitense e funzionari del Dipartimento di Stato sulla situazione dei diritti umani degli uiguri, sulla loro storia e sulla loro cultura, e ha organizzato testimonianze davanti a Commissioni del Congresso e comitati per i diritti umani. Ha quindi condiviso la propria esperienza con altre agenzie federali e militari, e, nel 2007, ha fornito assistenza durante un incontro a Praga tra l’allora presidente George W. Bush Jr. e Rebiya Kadeer, la leader morale degli uiguri, nota in tutto il mondo. Successivamente, nello stesso anno, ha fornito aggiornamenti e informazioni alla First Lady, Laura Bush, alla Casa Bianca, sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang, toponimo cinese a cui gli uiguri preferiscono “Turkestan orientale”.

Davanti al progressivo deteriorarsi della situazione nello Xinjiang, Rushan Abbas ha quindi dato vita all’iniziativa Campaign for Uyghurs per la promozione dei diritti umani e delle libertà democratiche.

La dottoressa Gulshan Abbas è scomparsa proprio come molti altri suoi parenti, e di lei nessun sa più nulla
La dottoressa Gulshan Abbas è scomparsa proprio come molti altri suoi parenti, e di lei nessun sa più nulla

La baia di Guantanamo viene di solito associata a terrorismo e prigioni. Come ci è arrivata lei?

 Il mio coinvolgimento con il campo di detenzione della baia di Guantanamo, la prigione militare che si trova nella base navale statunitense sulla costa di Cuba, conosciuta anche come “Gitmo”, è legato alla storia dei 22 uiguri detenuti lì dopo l’“incidente di Ghulja”. All’inizio del febbraio 1997 scoppiò una serie di proteste nella città con status di contea di Ghulja, nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang, per reazione all’esecuzione di 30 indipendentisti uiguri e alla repressione dell’identità nazionale uigura. Dopo due giorni di manifestazioni, il 5 febbraio la polizia decise di disperdere i manifestanti con la violenza e aprì il fuoco. Il numero ufficiale delle vittime fornito dal governo è 9, ma noi stimiamo che siano state uccise più di 100 persone, addirittura salendo fino a 167. Una stima successiva afferma che altre 1.600 persone sono state arrestate. I 22 uiguri della mia storia riuscirono invece a fuggire dalla Cina, raggiungendo i Paesi dell’Asia centrale limitrofi.

Ma oltre confine li attendeva un nuovo problema: il suo nome era Shanghai Cooperation Organization (SCO). Il 15 giugno 2001 i leader di Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan hanno annunciato a Shanghai, in Cina, la nascita di un’alleanza politica, economica e di sicurezza eurasiatica. L’accordo SCO è stato firmato nel giugno 2002, divenendo operativo il 19 settembre 2003 (l’8 giugno 2017 vi si sono uniti anche India e Pakistan). Nel patto è inclusa la cooperazione contro il terrorismo: cioè contro il “terrorismo” così come definito dal Paese che ha il potere di imporne la propria definizione agli altri. Fondamentalmente, la stipula dell’accordo significa che i Paesi dell’Asia centrale fanno sempre ciò che il governo cinese chiede loro di fare in merito agli uiguri: li arrestano e li deportano.

Quindi i 22 uiguri che erano scampati all’“incidente di Ghulja” sono dovuti fuggire di nuovo. In questo modo hanno raggiunto il Pakistan e l’Afghanistan, gli unici luoghi dell’area che offrivano protezione e che, a differenza di Turchia, Canada o Stati Uniti, non richiedevano visto d’ingresso. Il loro incubo è iniziato però dopo ‘’l’Undici Settembre, quando l’esercito americano ha attaccato l’Afghanistan. Mentre cercavano di scappare dalla zona di guerra, alcuni cacciatori di taglie pakistani li hanno catturati e venduti come foreign fighter alle autorità statunitensi per 5mila dollari l’uno. Ma era tutta una montatura orchestrata dalla Cina, che ha falsamente indicato quei 22 uomini come terroristi. Sono quindi finiti tutti a Guantanamo. Poi, dopo un’indagine approfondita svolta nel 2002-2003, il governo degli Stati Uniti ha finalmente stabilito che l’accusa di terrorismo mossa nei loro confronti era infondata e che quegli uomini non costituivano affatto minaccia né per gli Stati Uniti né per i loro alleati. Trovare però un altro Paese in cui potersi nuovamente spostare è stato per loro un grande, nuovo problema. Il governo cinese premeva infatti sui vari Paesi del mondo affinché non accettassero il ri-insediamento degli uiguri di Gitmo. Morale, quei 22 detenuti falsamente accusati sono rimasti a Guantanamo per periodi diversi, compresi tra i 4 e gli 11 anni.

In quanto uigura che vive negli Stati Uniti, sono stata contattata da uno dei contractor per il ministero statunitense della Difesa coinvolto nella guerra in Afghanistan affinché lavorassi come interprete a Gitmo dall’inizio del 2002 al dicembre dello stesso anno. Poi ho lasciato la base, ma nell’aprile 2003 sono stata richiamata per altri due mesi, totalizzando 11 mesi di permanenza a tempo pieno nella base. Nel 2006 sono entrata nel collegio difensivo dei 22 uiguri che presentò istanza di Habeas corpus (il ricorso contro la detenzione illegale) quando il termine della loro carcerazione era diventato indefinito. Gli avvocati e io abbiamo lavorato a stretto contatto con l’Amministrazione retta da Barack Obama, operando per il reinsediamento di quegli uomini che alla fine sono stati inviati in Albania, Bermuda, Palau, Svizzera, El Salvador e Slovenia. Adesso sono tutti liberi; la giustizia ha prevalso. Da questa storia incredibile, Patricio Henriquez, il pluripremiato cineasta cileno, che vive in Canada, ha tratto un film intitolato Uyghurs: Prisoners of the Absurd, presentato in anteprima a Montreal il 10 ottobre 2014, al Festival du nouveau cinéma. Nel film compaio anche io per il ruolo che ho avuto in questa storia. Il film e poi entrato in cartellone nei festival di documentaristica internazionale del Regno Unito, dei Paesi Bassi e a Praga, ed è diventato la pellicola di apertura dei festival del documentario di Turchia e Taiwan.

Lei è nata nello Xinjiang e ha studiato lì. Che ricordi ha di quel tempo?

 Sono nata e cresciuta a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, me ne sono andata nel maggio 1989. I ricordi della mia infanzia e della mia giovinezza sono quelli di una ricca e colorata cultura uigura succeduta al periodo oscuro della Grande Rivoluzione Culturale maoista. Per una decina di anni è stato bellissimo.

Cosa l’ha condotta negli Stati Uniti e perché ha poi deciso di rimanervi?

Sono arrivata negli Stati Uniti il 9 maggio 1989 per il mio master’s degree, la laurea rilasciata nei Paesi di lingua inglese al termine del secondo ciclo di studi superiori. Inizialmente ero visiting scholar all’Irrigated Agricultural Research and Extension Center della Washington State University, a Prosser, nello Stato di Washington, e poi sono stata ammessa nella Facoltà di Patologia vegetale per il dottorato. Perché ho deciso di rimanere negli Stati Uniti? Perché poco dopo il mio arrivo, il 4 giugno 1989, c’è stato il massacro di Piazza Tienanmen, ordinato dal PCC. Ho visto i carri armati entrare e sparare, un motivo più che sufficiente per non tornare indietro.

Rushan Abbas e Marco Respinti al Simposio sull’incarcerazione di massa degli uiguri in Cina, svoltosi all’Elliott School of International Affairs della George Washington University di Washington il 27 novembre 2018
Rushan Abbas e Marco Respinti al Simposio sull’incarcerazione di massa degli uiguri in Cina, svoltosi all’Elliott School of International Affairs della George Washington University di Washington il 27 novembre 2018

Quando hai iniziato a occuparsi dei diritti umani degli uiguri perseguitati?

Ero attiva per la mia gente già quando studiavo nell’Università dello Xinjiang a Urumqi. Negli Stati Uniti ho iniziato a occuparmene quando le rivolte e gli incidenti che nello Xinjiang costavano la vita agli uiguri si sono moltiplicate negli anni 1990.

Una delle sue grandi iniziative è “One Voice One Step”. Di cosa si tratta?

 A partire dall’aprile 2017, la situazione nello Xinjiang si è deteriorata rapidamente nel silenzio della comunità internazionale, dei media e dei governi. Venivano commesse atrocità orribili, ma nel mondo nessuno prestava attenzione. Con l’aiuto dell’Uyghur Academy ‒ fondata il 9 settembre 2009 a Istanbul per il progresso delle scienze e della cultura nazionali uigure ‒ e di mio fratello, il dottor Rishat Abbas ‒ presidente onorario dell’Uyghur Academy e consigliere anziano del World Uyghur Congress, nonché tra i fondatori della Uyghur American Association e dell’Uyghur Human Rights Project ‒, la Drexel University di Filadelfia ha organizzato un simposio accademico nell’ottobre 2017. Tra i relatori vi ero anch’io. L’obiettivo era trovare un modo per richiamare l’attenzione dei grandi media sui campi di detenzione dello Xinjiang ‒ ora ufficialmente chiamati campi per la “trasformazione attraverso l’educazione” ‒ e portare gli uiguri in tutto il mondo a implicarsi nel movimento per i diritti umani. Nel gennaio 2018 ho avuto l’idea di organizzare una protesta di livello mondiale, coinvolgendo e includendo tutte le organizzazioni e gli attivisti uiguri della diaspora. Ho poi pensato che se fossero state le donne a guidare le proteste la cosa avrebbe potuto davvero attrarre l’attenzione dei media internazionali. Ho dunque contattato le donne uigure in giro per il mondo e ho messo assieme un piccolo comitato organizzativo per pianificare i dettagli. Il tutto si e poi trasformato in un gruppo di WhatsApp chiamato “One Voice One Step” (OVOS), che a propria volta è diventato il nome di una iniziativa gestita dalla mia organizzazione, Campaign for Uyghur. Il messaggio di OVOS era molto chiaro: «Unire le voci e muovere un passo avanti assieme a tutte le organizzazioni uigure e a tutti gli attivisti uiguri della diaspora contro le atrocità che si stanno verificando nella nostra patria». Così, il 15 marzo, in coincidenza della 62a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne a New York, abbiamo organizzato una manifestazione di fronte alla sede dell’ONU, a cui è seguita una protesta davanti alla Missione cinese presso le Nazioni Unite. Altre manifestazioni di solidarietà si sono svolte nel medesimo giorno in tutto il mondo, 22 ore di seguito in 18 città di 14 Paesi: Australia, Belgio, Canada, Francia, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera, Turchia, Giappone e Regno Unito.

Alcuni dei suoi parenti che vivono nello Xinjiang sono scomparsi…

 Sono scomparsi i miei suoceri, residenti nella città di Hotan ‒ un contadino di 69 anni e sua moglie di 71 ‒, con tre delle loro figlie e una nuora, più i loro mariti. Mio marito, Abdulhakim Idris, e io non sappiamo dove siano dall’aprile 2017. Temiamo che siano finiti tutti in qui campi infami. Né abbiamo idea di dove siano i 14 nipoti di mio marito, maschi e femmine di età compresa tra i 3 e i 22 anni. I piccoli potrebbero essere stati inviati agli orfanotrofi nella Cina interna. Abbiamo anche appreso che Abdurehim Idris, mio ​​cognato, è stato condannato a 20 anni di carcere. Per questo ho deciso di parlare in pubblico delle atrocità perpetrate dal governo cinese nello Xinjiang, del destino dei miei parenti acquisiti e delle condizioni di vita nei campi, e l’ho fatto come relatrice a un convegno dell’Hudson Institute a Washington, il 5 settembre 2018. Sei giorni dopo, l’11 settembre, sono scomparse anche mia sorella ‒ la dottoressa Gulshan Abbas ‒ e mia zia. Voci che ci giungono da parenti lontani dicono che mia zia sia stata rilasciata, ma di mia sorella né c’è ancora traccia né si ode parola.

Ritiene che siano stati presi dei provvedimenti a causa del suo impegno a favore della libertà religiosa e dei diritti umani?

 Sia mia sorella sia mia zia sono bersagli insoliti. Non sono persone famose: non sono docenti, scrittori o poeti. Nessuna delle due ha viaggiato in alcun Paese straniero musulmano, ed entrambe parlano correntemente il cinese. Dico questo perché gli uiguri vengono spesso presi di mira quando viaggiano all’estero (sospettati di “collusione” con “terrorismo” o “potenze straniere”) oppure perché non parlano cinese mandarino (cosa che il governo centrale cinese considera un segno di arretratezza ignorante o di ribellione nazionalista). Mia sorella era medico in un ospedale statale. Né lei né mia zia si confanno ai consueti parametri di chi finisce nei cosiddetti “centri per la formazione professionale”, vale a dire i campi di internamento. Sono quindi certa che l’unica ragione del loro rapimento sia che sono “colpevoli per associazione”: sono diventate vittime della rappresaglia scatenata dal PCC contro il mio attivismo negli Stati Uniti.

La lotta del presidente Xi Jinping contro ogni forma di religione è particolarmente dura. È una novità o una costante del potere cinese?

 Colpire tanto duramente e allo stesso tempo gli uiguri e i musulmani è una novità di Xi Jinping. Il motivo è il suo irrefrenabile sogno di dominare il mondo. Oggi l’intera popolazione del Turkestan orientale è vittima della Belt and Road Initiative voluta da Xi, ovvero la grande e imponente strategia di sviluppo ideata dal governo cinese che prevede la costruzione di infrastrutture e investimenti in Asia, Europa e Africa. È stata ribattezzata “Nuova via della seta” ed è la soluzione finale del sogno imperialistico cinese di “Made in China 2025” ‒ la prima di un piano a tre fasi che mira a imporre la Cina come prima potenza manifatturiera e tecnologica del mondo entro il 2049 ‒, che ridefinirà la globalizzazione “con caratteristiche cinesi”. Il dott. Michael Pillsbury, direttore del Centro sulla strategia cinese dell’Hudson Institute, lo afferma chiaramente nel libro The Hundred-Year Marathon: China’s Secret Strategy to Replace America as the Global Superpower (St. Martin’s Griffin, New York 2015). Il Turkestan orientale occupato si trova nel cuore strategico di questo piano per il dominio del mondo.

 Detto questo, è dall’occupazione del Turkestan orientale operata nel 1949 dal presidente Mao che il governo cerca di distruggere a tutti i costi la cultura e la religione uigure. Gli uiguri sono stati perseguitati come “nazionalisti”, “controrivoluzionari” e “separatisti”. Dopo la tragedia dell’Undici Settembre, le autorità comuniste hanno rinominato quegli sforzi “guerra al terrorismo”. L’intera regione dello Xinjiang è stata quindi bollata. La punizione è culturale e collettiva. Milioni di persone vengono arrestate e detenute senza essere accusate di reati veri. Contee, distretti e quartieri forniscono il numero di persone necessario a riempire le quote della panificazione carceraria. La Cina definisce “terrorismo islamico” qualsiasi tipo di resistenza e con questo pretesto si è dato vita a un sistema di sorveglianza continua basato sulla raccolta del DNA, sull’onnipresenza delle telecamere, su software di riconoscimento facciale e su dispositivi di localizzazione GPS montati sui veicoli. L’intero Xinjiang vive oggi la condizione di uno Stato di polizia.

Negli Stati Uniti c’è molta simpateticità verso gli uiguri. La Commissione esecutiva del Congresso degli Stati Uniti sulla Cina, presieduta dal senatore Marco Rubio e co-presieduta dal deputato Christopher H. Smith, sta portando alla luce la situazione cinese, spesso ascoltando le testimonianze dei musulmani perseguitati dello Xinjiang. Cosa si aspetta da tutto questo?

 A mio avviso, la simpatia mostrata dagli Stati Uniti e il sostegno dato dagli uomini politici statunitensi agli uiguri derivano da una genuina volontà di difendere i diritti umani. Sulla questione uigura, gli Stati Uniti sono sempre stati dalla parte della giustizia e di ciò che è retto. Spero quindi di assistere a gesti forti e importanti. Per esempio, le sanzioni previste dal Global Magnitsky Act contro i funzionari cinesi responsabili di atrocità orrende e di crimini contro l’umanità. Vorrei anche che venisse sostenuto lo Uyghur Human Rights Policy Act, la proposta di legge presentata a metà novembre dal senatore Rubio, dal senatore Robert Menendez ‒ membro anziano del Comitato per le relazioni estere del Senato fedele ‒ e dal deputato Smith. Vorrei anche vedere missioni d’indagine nella regione o l’ampliamento delle trasmissioni del Servizio in lingua uigura di Radio Free Asia, che è essenziale per scoprire e far sapere delle detenzioni di massa e di altre questioni analoghe. Le informazioni sulla situazione reale della regione sono ostacolate dal blocco e dalla censura dei media orchestrati dal regime comunista di Pechino, che manipola l’opinione pubblica.

Molte persone vedono una sorta di inimicizia naturale tra i musulmani e gli Stati Uniti, ma il caso degli uiguri dimostra il contrario…

 Il governo e i parlamentari statunitensi hanno sempre sostenuto molto le attività democratiche degli uiguri, a partire dal finanziamento del già citato Servizio in lingua uigura di Radio Free Asia nel 1998, per poi continuare con l’assoluzione e il rilascio dei 22 uiguri della baia di Guantanamo. Sono stati questi i punti di svolta che hanno permesso di sviluppare relazioni tanto incoraggianti. Penso che il governo degli Stati Uniti e il popolo americano stiano finalmente vedendo l’obiettivo malvagio del regime comunista cinese per quello che è. Il nazionalismo cinese non si concentra solo sul tentativo di scalzare gli Stati Uniti come superpotenza globale; in verità mira a sostituire la democrazia e la libertà mondiali con la propria filosofia e con il proprio sistema totalitari. La crisi che si sta verificando oggi nello Xinjiang non ha precedenti. Se il mondo non chiederà conto alla Cina comunista di queste indecenze terribili, l’oscurità scenderà sul mondo con sorveglianze di massa, repressioni e azioni malvagie volte a porre fine al mondo libero così come oggi lo conosciamo.

Contrassegnato con: Diritti umani, Musulmani Uiguri

Marco Respinti
Marco Respinti

Marco Respinti è il direttore di International Family News. Italiano, è giornalista professionista, membro dell’International Federation of Journalists (IFJ), saggista, traduttore e conferenziere. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e periodici, sia in versione cartacea sia online, in Italia e all’estero. Autore di libri, ha tradotto e/o curato opere di, fra gli altri, Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Régine Pernoud e Gustave Thibon. Senior Fellow al Russell Kirk Center for Cultural Renewal, un’organizzazione educativa statunitense apartitica e senza fini di lucro che ha sede a Mecosta, nel Michigan, è anche socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo del Center for European Renewal, un’organizzazione educativa paneuropea apartitica e senza fini di lucro che sede a L’Aia, nei Paesi Bassi, nonché membro del Consiglio Consultivo della European Federation for Freedom of Belief. È direttore responsabile del periodico accademico The Journal of CESNUR e di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights in China.

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