Una ricerca di Christopher Balding sul gigante delle telecomunicazioni creato dall’ex militare Ren Zhengfei documenta connessioni che l’ex ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi considera allarmanti
di Marco Respinti
È semplicissimo: «Dopo aver esaminato un insieme di dati unico sulle attività lavorative dei dipendenti di Huawei, la relazione tra Huawei e lo Stato, l’apparato militare e i servizi per la raccolta di dati riservati appare innegabile». Certo, nessuno può dire «[…] se Huawei segua ordini ufficiali, agisca di concerto con lo Stato o cerchi solo di prevenire controlli maggiori agendo in anticipo». Tuttavia «[…] esistono significative prove dirette del fatto che il personale di Huawei agisca sotto la direzione dei servizi d’intelligence dello Stato, presentando numerosi punti di contatto e legami con l’intero apparato statale cinese. Cosa che dovrebbe preoccupare tutti i governi allarmati dallo spionaggio cinese».
È questa la conclusione a cui giunge la ricerca sulle relazioni tra il personale chiave della Huawei Technologies Inc. e i servizi di sicurezza dello Stato cinese che nei CV di alcuni dipendenti dell’azienda per le telecomunicazioni ha scoperto passate attività militari e di raccolta informazioni. Intitolata Huawei Technologies’ Links to Chinese State Security Services, la ricerca è appena stata pubblicata dallo statunitense Christopher Balding, professore associato di Economia nella Fulbright School of Public Policy and Management della Fulbright University Vietnam della città di Ho Chi Minh. Realizzato con il contributo di Samuel Armstrong, John Hemmings e Andrew Foxall della Henry Jackson Society di Londra, un think tank neoconservatore britannico specializzato in temi di politica estera, lo studio potrebbe anche riservare altro, dal momento che è «[…] il primo di una serie di documenti».
Balding ha analizzato un certo numero di carriere «[…] tratte da un database di CV reso disponibile online nel 2018 da siti web cinesi di cacciatori di teste non adeguatamente protetti». Ebbene, quel database contiene circa 600 milioni di profili, ma, come osserva il professore americano, «in base a quanto rivelano certe informazioni inedite, è del tutto probabile che il numero sia ancora più alto».
Dopo essersi assicurato di garantire la privacy e la sicurezza delle persone che intenzionalmente o meno sono coinvolte nella produzione della ricerca, Balding afferma: «Quattro sono i punti importanti di questi dati e di queste analisi. Anzitutto i dati sono testimonianze dirette e di prima mano sulle attività di Huawei, sul comportamento del suo personale e sulle sue relazioni con altre organizzazioni cinesi. Provengono direttamente da testimonianze di dipendenti di Huawei sul proprio lavoro e sulle proprie attività. In secondo luogo, i dipendenti di Huawei confermano in modo fattuale il rapporto tra lo Stato cinese, l’apparato militare e i servizi di raccolta informazioni. I dipendenti di Huawei confermano, cioè, i timori di legami e di azioni congiunte con lo Stato cinese. Terzo, quella relazione è chiaramente sistemica, visti i riferimenti pubblici ai rappresentanti delle unità MSS. In altre parole, non si tratta semplicemente di assunti Huawei che casualmente lavorino anche nell’esercito, quanto di una prassi chiaramente istituzionalizzata che permette allo Stato cinese e alle reti spionistiche di essere presenti in Huawei nel quadro di un’organizzazione sistemica progettata per facilitare i flussi di informazioni. Quarto, le relazioni istituzionali che legano Huawei e i servizi di sicurezza dello Stato cinese contraddicono direttamente la Huawei che afferma di non avere alcun rapporto con essi. Il fatto che i dipendenti di Huawei forniscano prove che contraddicano frontalmente certe dichiarazioni e affermazioni pubbliche dovrebbe essere fonte di notevole preoccupazione».
Vodafone ha già denunciato l’infiltrazione di Huawei
Non è una novità, però. Huawei è sotto i riflettori da mesi. Bitter Winter si è già occupato di come l’azienda venga impiegata come strumento di repressione interna e della minaccia che essa pone al mondo intero, nel quadro del «dispotismo digitale» da «[…] perfetto stato totalitario high-tech» ‒ secondo la formula di Judith Bergman, Distinguished Senior Fellow al Gatestone Institute (un think tank conservatore statunitense che si occupa di Medio Oriente e che ha sede a New York), ‒ laddove uno dei reportage più completi e informativi su Huawei resta quello pubblicato in dicembre da The Epoch Times.
Sulle connessioni con l’apparato militare cinese, poche settimane fa la multinazionale dell’informazione Bloomberg ha pubblicato un articolo in cui si afferma che «[…] i dipendenti [di Huawei] hanno collaborato a progetti di ricerca con personale delle forze armate cinesi, indicando legami più stretti con i quadri militari del Paese rispetto a quanto riconosciuto in precedenza dall’azienda di smartphone e reti. Nell’ultimo decennio, i dipendenti di Huawei hanno collaborato con membri di vari organismi dell’Esercito popolare di liberazione in almeno dieci attività di ricerca che spaziano dall’intelligenza artificiale alle comunicazioni radio. Tra queste collaborazioni vi sono la cooperazione con il settore investigativo della Commissione militare centrale ‒ il vertice delle forze armate ‒ atto a estrapolare e a classificare le reazioni espresse nei commenti video online e un’iniziativa assieme all’elitaria National University of Defense Technology per esplorare modalità di raccolta e di analisi di immagini satellitari e di coordinate geografiche». Ora, la National University of Defense Technology è l’accademia militare più importante e la principale università di ricerca nazionale dell’Esercito popolare di liberazione; ubicata a Changsha, nella provincia dell’Hunan, dipende direttamente della Commissione militare centrale cinese. Tutte queste affermazioni di Bloomberg vengono adesso confermate e comprovate dall’acribica ricerca di Balding.
Inoltre, in aprile, «Vodafone […] ha scoperto punti di vulnerabilità vecchi di anni nelle attrezzature fornite da […] Huawei al ramo italiano dell’azienda». Infatti, «nascoste nel software, la maggiore compagnia telefonica europea ha identificato backdoor che avrebbe potuto dare a Huawei accesso non autorizzato alla rete fissa che il vettore ha in Italia, ovvero ‒ a quanto rivelano i documenti della sicurezza di Vodafone relativi al periodo 2009-2011 visionati da Bloomberg e pure il personale coinvolto ‒ a un sistema che fornisce servizi Internet a milioni di famiglie e di aziende».
Ovviamente i funzionari cinesi negano o minimizzano tutto; ma è un atteggiamento ridicolo. Si tratta infatti degli stessi funzionari cinesi che cercano di negare o di minimizzare l’incredibile situazione dello Xinjiang, dove fino a 3 milioni di persone, secondo alcune le fonti, sono detenuti nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione, e dove chi non è, vive una vita da fatta di sorveglianze rigide e di controllo totale.
L’apparato cinese cerca pure si sostenere che non vi siano collegamenti fra Huawei e lo Stato, ma ci si può fidare? Dopotutto, si tratta dello stesso apparato cinese che ha cercato per anni di negare l’orrenda pratica del prelievo forzato di organi umani da trapianto e che oggi, dopo averlo ammesso, nega che vi sia collaborazione con lo Stato. Come se fosse possibile far funzionare la colossale macchina dell’espianto e del traffico di organi umani in un Paese totalmente controllato qual è la Cina senza che lo Stato se ne accorga.
Di che è Huawei?
Si tratta, però di un punto critico. Ecco perché, in aprile, Balding ha pubblicato un’altra ricerca, interessante e affascinante, intitolata, in modo rivelatore, Who Owns Huawei?, «Di chi è Huawei?», in cui osserva: «Per quanto riguarda il potere di voto formale, il gruppo Huawei è controllato dalla Huawei Holding TUC. È quindi fondamentale capire chi controlla il processo decisionale della Huawei Holding TUC».
Mentre si cerca di scoprirlo, continua il ricercatore americano, «alcuni fatti restano evidenti». Anzitutto, «[…] la struttura formale [dell’azienda] non tiene in alcun conto lo status ufficiale di organizzazione sindacale operante in base al diritto sindacale e avente concomitanti responsabilità politiche e organizzative che è della Huawei Holding TUC». In secondo luogo, «[…] le “azioni” possedute dai dipendenti sono solo azioni virtuali: sono, cioè, un dispositivo per rendere i dipendenti partecipi degli utili della società» e «[…] i “diritti” di voto» dei dipendenti in importanti processi decisionali della stessa «[…] possono venire abrogati». Terzo, «[…] non sembra che i possessori delle azioni virtuali […] abbiano diritto a utili non distribuiti».
Pertanto, «se la Huawei Holding è di fatto controllata da un comitato sindacale, allora, visto il modo in cui quegli organismi dovrebbero operare in Cina, ha senso considerarla un’azienda controllata dallo Stato e persino di proprietà statale». Aggiungendo che «se questo quadro formale non corrispondesse alla realtà, allora Huawei, che controlla tutte le informazioni rilevanti, può chiarire la situazione», lo studioso statunitense conclude: «Alla fine, anche se non è possibile sapere con esattezza chi possegga realmente Huawei, è però possibile essere abbastanza sicuri del fatto che non siano i suoi dipendenti. I dipendenti non posseggono né la governance né i diritti per controllare né alcun singolo ramo di Huawei né l’insieme di tutti i rami di Huawei. Sembrano avere al massimo titolo a una sorta di spettanza contrattuale sugli utili (possibilmente a discrezione di chiunque ne sia la controparte contrattuale: la Huawei Tech, la Huawei Holding o la Huawei Holding TUC), ma non hanno alcun diritto sul resto. I dipendenti non hanno diritto né alla governance né al controllo né di alcun singolo ramo di Huawei né dell’insieme di tutti i rami di Huawei. In sintesi, Huawei non è né di proprietà dei dipendenti né governata dai dipendenti, e resta quindi la domanda su chi effettivamente la governi o controlli oltre a Ren Zhengfei, possessore di una quota azionaria dell’1% di una holding che è l’unico azionista dell’entità operativa di Huawei».
Commenti preziosi sulla ricerca di Balding sono stati espressi dall’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ex ministro italiano degli Esteri e oggi presidente di Cybaze, una delle principali compagnie di cybersecurity. In un’intervista a Formiche, periodico di analisi e di commenti, Terzi afferma che quelle dello studioso statunitense sono conferme autorevoli di voci ricorrenti, mentre tutti dovrebbero invece ricordare che il fondatore di Huawei, Ren Zhengfei, è un ex ufficiale militare. L’ambasciatore afferma anche che «[…] la legge [cinese] sulla sicurezza nazionale del 2017 costringe tutte le aziende [cinesi] ad alto valore tecnologico a cooperare con gli apparati di sicurezza [cinesi]», un fatto che chiarisce come Huawei faccia «[…] parte in toto di un sistema Dual Use» che combina «attività civili, obiettivi strategici e metodologie militari».
A Bitter Winter (che l’ambasciatore tiene in alta considerazione come fonte veritiera e affidabile di informazioni primarie), Terzi, che considera i diritti umani e soprattutto la libertà religiosa una priorità morale e politica, aggiunge: «La gente in Occidente si preoccupa solo dei profitti economici. Quindi, quando Huawei offre un router Internet che costa dieci volte meno del prezzo medio di mercato dei suoi concorrenti occidentali, lo acquista senza altre considerazioni. Ma il non piccolo dettaglio è che quel router è, come è stato dimostrato, un modo per fornire ai funzionari cinesi i dati personali degli utenti. Fondamentalmente, gli interessi economici a medio raggio spingono l’Occidente a ignorare il quadro: stiamo vendendo la nostra sicurezza e il comune».