Due giovani kazaki giunti in Kazakistan per sfuggire alla prigione e alla tortura rischiano – dice il loro avvocato, Lyazzat Akhatova – di essere rimandati in Cina
Massimo Introvigne
Bitter Winter ha trattato ampiamente il tema dei musulmani kazaki in Cina, incarcerati a migliaia nei temibili campi per la trasformazione attraverso l’educazione. Alcuni di loro riescono comunque a evadere e a fuggire in Kazakistan, dove l’opinione pubblica è largamente schierata in loro favore ma il governo subisce forti pressioni da parte di Pechino che mira a far negare lo status di rifugiati ai fuoriusciti. Uno di questi casi ha coinvolto Sayragul Sauytbay, una giovane madre kazaka la cui estradizione in Cina è stata impedita grazie all’impegno dell’avvocato Ayman Umarova. La Sauytbay però non si sentiva al sicuro neppure in Kazakistan e alla fine si è trasferita in Svezia.
Il 1° ottobre il suo dramma si è ripetuto tale e quale. Due giovani kazaki, Kaster Musakhan e Murager Alimuly, sono riusciti a fuggire dallo Xinjiang e a passare il confine nelle vicinanze del villaggio di Shilikti. Hanno quindi viaggiato fino ad Almaty e qui hanno chiesto asilo al governo kazako. Proprio come accaduto a Sauytbay prima, gli uomini sono stati accusati di aver oltrepassato illegalmente il confine, reato che in base alla legge kazaka può essere punito con l’estradizione nel Paese d’origine. Pechino ha iniziato a esercitare pressioni su Almaty per riaverli indietro e la loro situazione resta molto incerta. Di nuovo come Sauytbay, i due uomini stanno ora mettendo in imbarazzo il PCC postando video in cui proclamano che i campi per la trasformazione attraverso l’educazione non sono “scuole”, bensì orrende prigioni, e descrivono come sono stati torturati più volte.
In questi filmati Alymuly, 25 anni, afferma che è molto facile che i musulmani kazaki dello Xinjiang siano inviati nei campi: «Il regime può imprigionarti solo per il fatto che indossi la tubeteika [il copricapo tradizionale kazako]». «L’ultima volta mi hanno arrestato in settembre», ha aggiunto. «Mi hanno incatenato mani e gambe, mi hanno fatto sedere su una sedia di metallo e mi hanno torturato per 24 ore». Musakhan, trent’anni, ha raccontato di aver trascorso in tutto quattro anni e otto mesi nei campi e ha aggiunto: «Non ho parole per descrivere ciò che ho visto laggiù».
I due giovani sono rappresentati dal punto di vista legale dall’avvocatessa kazaka Lyazzat Akhatova. Bitter Winter le ha chiesto quale sia oggi la situazione dei due rifugiati.
Avvocato Akhatova, in quale situazione si trovano Musakhan e Alimuly, dal punto di vista legale?
Credo che la disposizione legislativa fondamentale cui guardare sia la Convenzione di Ginevra del 1951, cioè la Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati. L’Articolo 33 comporta il «divieto di espulsione o rinvio al confine (estradizione)». (nei Paesi d’origine) e stabilisce che «nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». L’Articolo aggiunge inoltre che «la presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto Paese».
I miei assistiti, Kaster Musakhan e Murager Alimuly, sono due cittadini della Repubblica Popolare Cinese, fuggiti da quel Paese, dove affermano di essere stati perseguitati. Contro di loro è stato istruito un caso penale in base all’Articolo 392, Parte 1, del Codice penale della Repubblica del Kazakistan, per aver oltrepassato illegalmente il confine di Stato. Secondo la legislazione kazaka, la punizione per questo reato può comportare una multa di mille MCI [la moneta kazaka] oppure la detenzione per la durata di un anno, unitamente all’espulsione verso il Paese di origine.
Quali sono le possibilità di impedire la loro estradizione in Cina?
Questa settimana sono circolate alcune voci sui ragazzi (oltre a pressioni morali nei miei confronti) che mirano a farli tornare in patria. La ragione è un’intervista con un giornalista del Sukhbat rilasciata dal vice capo della Commissione per la sicurezza nazionale della Repubblica del Kazakistan per la Gestione delle frontiere, Dilmanov. Riferendosi a quanto imposto dall’Accordo fra la Cina e la Repubblica del Kazakistan a proposito della responsabilità penale, il vice capo ha stabilito che i cittadini cinesi Kaster Musakhan e Murager Alimuly saranno rimpatriati nel proprio Paese, vale a dire appunto la Cina.
In effetti un tale accordo esiste: è datato 14 dicembre 2006 ed è stato debitamente ratificato dal Kazakistan. Tuttavia l’Articolo 32 di tale Accordo stabilisce che «i responsabili delle frontiere degli Stati e gli organismi autorizzati delle parti indaghino prima possibile sul trasgressore, ne stabiliscano l’identità, le circostanze e le ragioni per cui ha violato il confine e, entro sette giorni dal momento dell’arresto, lo trasferiscano ai responsabili delle frontiere o agli organismi autorizzati dell’altra parte in causa».
È indicato chiaramente che chi viola un confine debba essere condotto nell’altro Paese entro sette giorni. Ma i miei clienti hanno passato la frontiera in ottobre. Sono passati più di due mesi da allora. Inoltre, è stato istruito contro di loro un procedimento penale per aver oltrepassato illegalmente il confine di Stato della Repubblica del Kazakistan. Hanno violato il confine del Kazakistan e ciò significa che la condanna per tale reato debba essere applicata in Kazakistan. Dopo aver scontato la condanna, potranno essere rimpatriati. Fino a che non l’avranno del tutto scontata, nessuno può toccarli, men che meno costringerli a tornare in Cina. Così è stato per Sayragul Sauytbay. Prima della fine della condanna comminatale (era stata condannata a sei mesi di carcere), la donna ha chiesto asilo in altri Paesi, dopo che il Kazakistan le ha rifiutato lo status di rifugiata. Ora Sayragul vive in Svezia.
Ciò significa che Musakhan e Alimuly debbono essere prima arrestati in Kazakistan e poi rimandati in Cina?
Esiste dal punto di vista legislativo un secondo aspetto che deve essere preso in considerazione. L’Articolo 1, Parte 3 del Codice penale kazako stabilisce che i trattati internazionali ratificati dalla Repubblica del Kazakistan siano prioritari rispetto al Codice penale medesimo. E il Kazakistan ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
In questo caso, il tribunale deve applicare i regolamenti della Convenzione di Ginevra, dal momento che hanno la precedenza rispetto alla legislazione kazaka. Il problema tuttavia è di natura politica. Non il solo Dilmanov, ma anche lo stesso presidente della Repubblica, Kassym-Jomart Tokayev, hanno dichiarato pubblicamente che i campi di concentramento dello Xinjiang non esistono. L’intera questione risiede nel fatto che il Kazakistan non ammette il genocidio dei cinesi contro i musulmani turcofoni, riconosciuto dall’intero mondo democratico!
Di conseguenza temo che il tribunale competente non terrà in considerazione le disposizioni dell’Articolo 33 della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati. I giudici potranno fare riferimento alle dichiarazioni delle più alte autorità politiche del Paese.
Lei, come avvocato, cosa sta facendo per tentare di superare tale situazione?
La fase delle indagini a proposito dei miei assistiti è terminata solo il 6 dicembre. Quella notte stessa ho preso un volo per Nur-Sultan da Ust-Kamenogorsk. Ho studiato a fondo i materiali relativi al caso e ho predisposto le obiezioni di revoca e le istanze di convocazione per tre testimoni che a loro volta si trovavano in Cina, nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione. Ho anche messo sull’avviso i rappresentanti dei media, anche quelli stranieri, per spingerli a partecipare alle udienze del tribunale, e ho redatto lettere destinate alle Nazioni Unite e alle ambasciate di vari Paesi, con la richiesta di offrire asilo politico ai kazaki provenienti dalla Cina.
Il compito dell’avvocato nel corso della fase delle indagini è di essere presente agli interrogatori al fianco dei propri assistiti, di restare con loro durante le indagini, di fare appello in caso di comportamenti illegali da parte di chi si occupa di tali indagini o degli agenti incaricati degli interrogatori. In questo caso, non vi sono state violazioni cui appellarsi da parte degli agenti che si occupavano dell’inchiesta. Ora rimane da difendere in tribunale gli interessi dei due giovani. Abbiamo prove a sufficienza per sostenere le obiezioni all’accusa rivolta ai ragazzi. La questione non è ancora in fase di processo; il 9 dicembre sarà trasferita all’ufficio del pubblico ministero. È ancora troppo presto per fare previsioni.