Benché la Cina non abbia sottoscritto il trattato che ha istituito il tribunale de L’Aia, l’avvocato londinese Rodney Dixon ritiene che possa esservi fatta valere la giurisdizione nei confronti di Pechino
di Ruth Ingram
Il regime cinese sta per essere costretto ad affrontare davanti alla Corte penale internazionale de L’Aia lo «scioccante» genocidio che sta attuando ai danni della popolazione uigura.
Questa settimana, alcuni gruppi attivisti uiguri hanno presentato davanti alla Corte penale internazionale (ICC) prove attendibili del genocidio e dei crimini contro l’umanità, perpetrati ai danni di milioni di persone appartenenti alla minoranza turcofona nella regione nordoccidentale della Cina, e hanno preteso che i funzionari implicati nelle atrocità ne siano considerati responsabili.
Alcuni gruppi di attivisti, il Governo del Turkestan orientale in esilio (ETGE) e l’East Turkestan National Awakening Movement (ETNAM), citano una lunga serie di abusi contro i diritti umani, al fine di ottenere giustizia per il proprio popolo. Non tutti all’interno della diaspora uigura concordano con le posizioni politiche dell’ETGE e dell’ETNAM, che caldeggiano da lungo tempo la costituzione di uno Stato indipendente nella regione ora nota come Xinjiang, ma la loro azione contro il regime cinese sta catalizzando un appoggio generalizzato.
Rappresentati dal legale britannico Rodney Dixon, avvocato della Corona, esperto di Diritto internazionale, tali gruppi elencano una lista infinita di crimini, quali l’omicidio, la carcerazione arbitraria, la tortura, il controllo forzato delle nascite e la sterilizzazione, per accusare gli alti funzionari del regime, fra cui il presidente Xi Jinping, di aver pianificato una campagna feroce di annientamento della popolazione turcofona nella madrepatria.
Pur descrivendo come una «giornata storica» questo primo tentativo in assoluto di usare il Diritto internazionale per obbligare Pechino ad assumersi la responsabilità dei propri crimini, Dixon l’ha definita però una occasione dal retrogusto amaro, poiché cade nell’undicesimo anniversario delle rivolte di Urumqi del luglio 2009. I massacri degli uiguri attuati per ritorsione che sono seguiti alla repressione annunciata sono continuati fino a oggi, ha riferito l’avvocato, aggiungendo che la causa ha ancora un lungo cammino da percorrere.
Egli ha spiegato che nonostante il rifiuto di Pechino di aderire allo Statuto di Roma, che ha istituito la Corte penale internazionale, una sentenza del medesimo tribunale risalente al 2018 ne ammette la giurisdizione quando i reati abbiano inizio o fine in uno degli Stati aderenti «[…] e ciò è quanto si verifica in questo caso», ha sottolineato. Esattamente come il Myanmar, che non è uno dei Paesi firmatari dell’ICC, è stato perseguito poiché i musulmani di etnia rohingya sono stati espulsi e sono fuggiti in Bangladesh, che è uno degli Stati membri, Dixon ha affermato che il medesimo principio possa essere applicato nel caso della Cina.
«Si è dato per scontato per troppo tempo che la Cina sia fuori dal raggio d’azione dell’ICC, ma ora il caso è diverso», ha affermato l’avvocato. Dixon ha ricordato infatti l’estradizione avvenuta da due Stati aderenti allo Statuto, cioè il Tajikistan e la Cambogia, di alcuni uiguri che sono stati rimandati in Cina, dove hanno subito la persecuzione del regime, e ha affermato che «La situazione in cui ci troviamo presenta vie legali assolutamente lineari per cui l’ICC può dare inizio alle indagini». «Non si tratta di un sistema per aggirare la legge», ha aggiunto. «È la legge stessa a indicarlo».
In una intervista a The New York Times, prima di inviare a L’Aia la documentazione, l’avvocato Dixon ha sottolineato che il pubblico ministero ha il dovere di condurre le indagini sul genocidio. «Se si arrestano le persone e si organizza una campagna per perseguitarle e sterilizzarle, questa campagna mira a disciogliere e poi distruggere la loro identità di gruppo».
Questa settimana, durante una conferenza stampa che si è tenuta a L’Aia, Dixon ha espresso la speranza di trovarsi a un punto di svolta. L’avvocato ha affermato che nessuno sino a oggi è stato considerato responsabile per gli abusi nei confronti di milioni di cittadini turcofoni della zona nordoccidentale della Cina. «Si tratta di un fatto sconvolgente, se si considera la gravità di tali crimini», ha detto.
In una breve conversazione via web da Washington, per promuovere la propria causa, i funzionari dell’ETGE Ghulam Osman Yaghma, Salih Hudayar e Abdulahad Nur hanno implorato l’ICC di «intervenire a salvarci!».
In aggiunta ai crimini che sono stati commessi da quando nel 2016 Chen Quanguo ha iniziato a stringere il cappio al collo alla cultura, alla lingua, alla religione uigure e alle libertà fondamentali di più di 11 milioni di persone nello Xinjiang, i tre funzionari hanno segnalato abusi di lunga data per la maggior parte rimasti celati al resto del mondo, fra cui 46 test nucleari in superficie condotti fra il 1964 e il 1996, che hanno ucciso migliaia di persone e le cui ricadute hanno distrutto intere generazioni di cittadini a causa di disabilità congenite e decessi causati dal cancro. I gruppi di attivisti riferiscono di centinaia di migliaia di uccisioni di cittadini uiguri durante ciò che descrivono come l’«invasione» della loro terra da parte dei Comunisti nel 1949 e in tempi più recenti, nel corso degli anni, la registrazione dei dati personali di 15 milioni di uiguri ha contribuito alla mole notevole di prove che indicano il coinvolgimento del PCC nel prelevamento di organi da uomini e donne uiguri.
«Siamo stati oppressi troppo a lungo dalla Cina e dal Partito Comunista», ha affermato Abdulahad Nur. «Abbiamo sofferto troppo perché il genocidio del nostro popolo possa essere ancora ignorato».
Poiché hanno fornito un gran numero di documenti e di testimonianze di prima mano rese dai sopravvissuti ai cosiddetti campi per la trasformazione attraverso l’educazione, i tre funzionari sperano vivamente che il loro caso sarà preso in considerazione con serietà e rapidità. «Auspichiamo che il pubblico ministero riconoscerà il merito della nostra richiesta e che ella farà la cosa giusta e avvierà un’indagine a proposito di tali crimini», ha detto Nur.
L’avvocato Dixon ha specificato che l’invio della documentazione costituisce il primo, piccolo passo verso la presa in carico del caso da parte dell’ICC. Nonostante l’incertezza rispetto alla tempistica, egli ha esortato il pubblico ministero a non sciupare tale opportunità per mettere in chiaro la questione del popolo uiguro.
«Come ha affermato l’ICC, non esiste immunità, per nessuno, che riguardi crimini commessi in contesti internazionali su cui l’ICC stessa abbia giurisdizione», ha insistito Dixon. «Uno dei principi fondanti dello Statuto di Roma è la fine dell’impunità», ha sottolineato. «Ciò è detto in modo chiaro e scorrevole ed è implicito nella giurisprudenza per quanto riguarda i tribunali», aggiungendo che l’ICC è stata istituita proprio per garantire che questo tipo di «casi particolarmente gravi» fossero trattati con la giusta serietà.
La modalità in cui questo caso sarà gestito, ha affermato l’avvocato, «determinerà quale possa essere il lascito dell’ICC». Ciò potrebbe «infondere nuova vita al principio in base al quale chi provoca danno e sofferenza al prossimo deve pagare le conseguenze delle proprie azioni, vale a dire affrontare la giustizia e la responsabilità».