Gli scienziati stanno ancora dibattendo sull’origine del coronavirus, ma non bisogna perdere di vista il punto chiave: le bugie e i ritardi del Partito Comunista Cinese hanno impedito al mondo di contenere l’epidemia
di Marco Respinti
Il 17 marzo Bitter Winter ha riferito della strana storia dello studio firmato da due ricercatori cinesi, il dott. Botao Xiao della South China University of Technology di Guangzhou e il dott. Lei Xiao della Wuhan University of Science and Technology, e pubblicato sul database scientifico internazionale Research Gate, da cui è scomparso pochi giorni dopo essere stato caricato. Come detto in quell’articolo, non siamo scienziati e non abbiamo modo di valutare l’affidabilità della ricerca. Tuttavia il dott. Botao Xiao è uno scienziato noto, che ha al proprio attivo più di una decina di articoli pubblicati su periodici accademici internazionali, ed entrambi quei ricercatori non possono essere sospettati di fomentare propaganda anticinese dal momento che lavorano per un’università pubblica in Cina.
I due Xiao affermano che il COVID-19 proviene effettivamente da pipistrelli, ma, poiché non ci sono pipistrelli selvatici portatori di quel tipo di virus a Wuhan o nei dintorni, è più probabile che questi pipistrelli provengano da uno o due laboratori di Wuhan, le cui attività sono avvolte nel segreto.
Il 17 marzo il famoso periodico scientifico Nature ha pubblicato un articolo sul virus, scritto dai dottori Kristian G. Andersen, Andrew Rambaut, W. Ian Lipkin, Edward C. Holmes e Robert F. Garry, in cui si afferma che «è improbabile» che il virus «[…] sia frutto di manipolazione di laboratorio», laddove è più probabile che sia stato arrivato agli esseri umani attraverso i pipistrelli o attraverso un altro animale, un mammifero noto come pangolino.
I media internazionali, forse non senza il contributo cinese, hanno rapidamente pubblicizzato l’articolo come “smentita” della “fake news” sull’origine in laboratorio del virus. Certamente ha smascherato le bugie cinesi sull’origine del virus nei laboratori statunitensi. D’altra parte l’articolo di Nature è stato probabilmente scritto prima che gli Xiao caricassero il proprio su ResearchGate e non lo contraddice. Gli Xiao non affermano che il virus sia stato creato apposta in un laboratorio cinese, ma suggeriscono la possibilità che i pipistrelli che lo hanno diffuso provenissero originariamente da uno dei due laboratori che operano nell’area di Wuhan.
Il 20 marzo Alexandre Hassanin, professore nell’Istituto di Sistematica, Evoluzione e Biodiversità dell’Università La Sorbona di Parigi, ha osservato che il virus che causa il COVID-19 potrebbe essere «[…] il risultato di una ricombinazione tra due diversi virus, uno prossimo all’RaTG13 e l’altro più prossimo al virus del pangolino. In altre parole, si tratta di una chimera tra due virus preesistenti», laddove l’RaTG13 è un betacoronavirus, ovvero uno dei quattro generi (alfa, beta, delta, gamma) di coronavirus che discendono (come l’alfacoronavirus) dal corredo genetico del pipistrello piscina. I betacoronavirus, afferma Hassanin, «[…] sono stati scoperti, principalmente nei pipistrelli, ma anche nell’uomo. Per esempio l’RaTG13, isolato in un pipistrello della specie Rhinolophus affinis catturato nella provincia cinese dello Yunan, è stato recentemente descritto come molto simile» al coronavirus di oggi, «[…] con sequenze del genoma identiche al 96%». Questo è esattamente ciò che gli Xiao hanno affermato: «Due descrizioni del virus pubblicate su Nature questa settimana hanno indicato che le sequenze del genoma dei pazienti erano identiche al 96% o all’89% del coronavirus Bat CoV ZC45 originariamente trovato nel Rhinolophus affinis». Gli Xiao citano peraltro due articoli di Nature, uno pubblicato da un gruppo di colleghi cinesi il 3 febbraio e l’altro da un altro gruppo di colleghi cinesi nella stessa data.
Nature sta ovviamente pubblicando diversi studi sull’argomento, aggiornando le ricerche man mano che sono disponibili nuovi dati, perché è così che procede la scienza: empiricamente, per approssimazioni successive. I due punti chiave su cui si concentra l’attenzione degli scienziati sono (1) il modo in cui i due diversi virus si sono ricombinati e (2) l’ospite intermedio che ha trasmesso l’infezione agli esseri umani. Il meccanismo di ricombinazione dei due virus (trasmessi rispettivamente dai pipistrelli e dai pangolini) era, secondo Hassanin, «[…] già stato descritto nei coronavirus […]. È importante sapere che la ricombinazione provoca un nuovo virus potenzialmente in grado di infettare una nuova specie ospite. Perché avvenga la ricombinazione, i due virus divergenti devono aver infettato contemporaneamente lo stesso organismo». Quindi la domanda, nelle parole di Hassanin, è: «in quale organismo è avvenuta questa ricombinazione? (un pipistrello, un pangolino o un’altra specie?) E soprattutto: in quali condizioni ha avuto luogo questa ricombinazione?». Non lo sappiamo. Come scrivono Botao Xiao e Lei Xiao, «è possibile che si sia trattato di una ricombinazione naturale o che vi sia stato in ospite intermedio del coronavirus, ma poche sono le prove mostrate».
Vi è un’altra frase nell’articolo di Hassanin che merita di essere sottolineata: il virus con cui ci si sta confrontando ora è «[…] una chimera tra due virus preesistenti». Non sono né un virologo né un medico. Sono solo un giornalista, che prova a unire i puntini e che si ferma là dove i puntini si fermano. In genetica una chimera è un organismo composto da cellule dotate di più di un DNA distinti. Prende il nome dal mostro leggendario della mitologia greca, etrusca e romana. È anche curioso ricordare che nel film Mission: Impossible 2, del 2000, è il nome di un misterioso virus mortale in grado di distruggere ogni cosa che fortunatamente i buoni alla fine distruggono. Lo studio scomparso dei due Xiao usa la medesima espressione: è «[…] un virus chimerico».
L’articolo di Nature suggerisce che la chimera sia frutto di combinazione naturale. Gli Xiao affermano che è possibile, ma che forse non è probabile, vista la situazione a Wuhan. La domanda rimane: quali sono esattamente le attività dei due laboratori di Wuhan menzionate nello studio di Xiao e Xiao? Il PCC ha deliberatamente nascosto fatti cruciali sull’origine del virus? La propaganda cinese ha cercato di presentare il PCC come soluzione all’emergenza del virus, mentre in realtà ne è la causa principale, visti i suoi insabbiamenti e i suoi ritardi. Come ha suggerito l’editorialista Josh Rogin in un articolo dedicato al morbo pubblicato su The Washington Post, dovremmo tutti chiamarlo non “virus cinese”, ma “virus del PCC”. Come scrive Rogin, «è più preciso e offende solo quelli che lo meritano».