La troika composta da Arabia Saudita, Kenya e Ungheria non prende posizione, ma elenca semplicemente le opinioni dei diversi Paesi sui diritti umani in Cina
Massimo Introvigne
Il 15 marzo 2019 la troika composta da Arabia Saudita, Kenya e Ungheria ha reso noto il proprio rapporto di Revisione periodica universale della Cina al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, a Ginevra.
Nessuno si aspettava un atto d’accusa significativo nei confronti della Cina. I tre Paesi che compongono la troika hanno già i loro problemi, rispetto ai diritti umani. Anche l’Ungheria, benché faccia parte dell’Unione Europea, vive una situazione critica. Per altro, è stata il primo Paese europeo a sottoscrivere la Belt and Road Initiative cinese. Il Kenya è talmente dipendente dalla Cina dal punto di vista economico, che di recente è stato messo in dubbio che goda ancora almeno di un pizzico di sovranità nazionale. L’Arabia Saudita è un Paese musulmano sunnita, da cui ci si sarebbe aspettati un’indagine seria rispetto ai crimini perpetrati ai danni degli uiguri sunniti e dei musulmani kazaki nello Xinjiang. Tuttavia, come Bitter Winter ha già riferito due settimane fa, il 22 febbraio Cina e Arabia Saudita hanno siglato un accordo economico del valore di 28 miliardi di dollari. Subito dopo, l’Arabia Saudita ha dichiarato di appoggiare, nei fatti, la detenzione di un milione di uiguri e altri musulmani sunniti nei famigerati “campi di trasformazione attraverso l’educazione”, in quanto sarebbe una misura indispensabile di de-radicalizzazione.
Il rapporto è un documento piatto e inutile. Riferisce le dichiarazioni della propaganda cinese a proposito della gloriosa situazione dei diritti umani nel regno di Xi Jinping, senza alcun commento. I commenti sono spesso involontariamente umoristici, ma si tratta purtroppo di humor nero. Rispondendo alle critiche rispetto ai campi nello Xinjiang, la Cina in realtà li propone come modelli per gli altri Paesi. «La Cina, recita il rapporto, ha stabilito che le istituzioni di formazione professionale e di preparazione, che sono state istituite ai fini di combattere il terrorismo nella Regione autonoma dello Xinjiang, fossero indirizzate alla acquisizione di competenze legali, professionali e linguistiche e alla de-radicalizzazione, e che fossero orientate alla collocazione lavorativa. Attraverso questo tipo dii educazione, tali istituzioni hanno aiutato le poche persone che si erano trovate esposte all’estremismo, e da esso colpite, a scrollarsi di dosso ogni pensiero di estremismo e di terrorismo. Piuttosto che reprimerle dopo che sono diventate dei terroristi e un pericolo per gli altri e per la società, le istituzioni le hanno aiutate a reintegrarvisi, invece di divenire terroristi irriducibili o vittime del terrorismo. Tra le misure contro il terrorismo, tali istituzioni sono state istituite in conformità con la legge e hanno prodotto i risultati sperati. Rappresentano gli sforzi dello Xinjiang di individuare un approccio antiterroristico efficace e un ulteriore importante contributo della Cina all’impegno antiterroristico internazionale». Resta inspiegabile come un milione e più di musulmani dello Xinjiang possano essere tutti “terroristi”.
Nella seconda parte, il rapporto elenca solamente le raccomandazioni degli altri Stati delle Nazioni Unite, senza alcun commento, chiedendo alla Cina di rispondere non appena possibile. La Cina però ha già risposto, dichiarando semplicemente di non accettare alcuna critica. Quantomeno, la lode e il credito che meritano dovrebbero essere riconosciuti ai Paesi che hanno chiesto alla Cina di dare delle risposte in merito alle violazioni continue della libertà religiosa: Australia, Austria, Belgio, Canada, Croazia, Repubblica Ceca, Francia, Finlandia, Germania, Haiti, Italia, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Svezia, Svizzera, Stati Uniti. E vergogna a quelli che con i fatti lodano la repressione della Cina contro la religione o i diritti umani. Bitter Winter ha già riferito dell’esortazione della Corea del Nord alla Cina a «continuare a combattere contro le sette», come riepilogato nel rapporto. La Siria di Assad e il Venezuela di Maduro, allo stesso modo, elogiano la repressione da parte cinese degli estremisti, o l’eccellente condizione dei diritti umani nel Paese, così come Cuba, Turkmenistan ed Egitto. Resta da vedere se questa compagnia aiuterà la Cina o piuttosto la mostrerà come parte di un “asse del male” di violatori pervicaci dei diritti umani. Ma troppi Paesi sono rimasti in silenzio o hanno fatto ricorso a un linguaggio ambiguo. Uno di questi è la Grecia, che ha riconosciuto le “riforme” della Cina nel campo dei diritti umani (ampiamente immaginarie) e ha esortato i cinesi a «rafforzare ulteriormente la protezione dei diritti delle minoranze etniche», come se tale protezione esistesse davvero.
Citiamo la Grecia perché nel 2018 ha siglato un Memorandum di comprensione della Belt and Road e ha permesso alla Cina di acquisire una quota di maggioranza del suo porto più importante, il Pireo. Come al solito, le autorità greche insistono sul fatto che tale accordo sia puramente economico, piuttosto che politico. Tuttavia, vi sono sempre clausole segrete e persino non scritte negli accordi con la Cina. Chi entra nella sua rete economica può ottenere benefici finanziari, ma invariabilmente smette di parlare dei problemi del PCC rispetto ai diritti umani.