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L’Urna d’oro: se il PCC ateo crede nella reincarnazione

04/01/2019Massimo Introvigne |

Perché il PCC, dichiaratamente ateo, reclama il diritto di decidere quali lama buddhisti siano autorizzati a reincarnarsi? Un nuovo libro aiuta a capire

La versione manciù del Discorso sui Lama
La versione manciù del Discorso sui Lama del 1792 (喇嘛说 / 喇嘛說), Tempio Yonghegong, Pechino (Bjoertvedt – CC BY-SA 4.0)

Massimo Introvigne

All’interno dei confini cinesi vivono più di mille cittadini titolari di una carta d’identità molto speciale. Il loro documento testimonia infatti che sono la reincarnazione di lama buddhisti defunti, ciascuno dei quali debitamente autorizzato dal Partito Comunista Cinese (PCC) a reincarnarsi. È il Partito stesso a certificare che l’intestatario di quello speciale documento sia la sola, autentica reincarnazione di un determinato lama. Eventuali rivali passerebbero guai seri con la polizia comunista.

Questa bizzarra pratica va avanti dal 1995, quando il Dalai Lama ha riconosciuto un bambino di sei anni, di nome Gedhun Choekyi Nyima, come la reincarnazione del decimo Panchen Lama (1938-1989). Il bambino è quindi diventato all’istante l’undicesimo Panchen Lama, la più alta autorità nella scuola Geluk del buddhismo tibetano appunto dopo il Dalai Lama, che è il capo supremo della scuola. Il bambino non è però stato riconosciuto dalle autorità cinesi che lo hanno preso in custodia (da allora non è mai stato più visto, per quanto sia il Dalai Lama sia il PCC sostengano che è vivo) e che si sono messe a cercare autonomamente l’undicesimo Panchen Lama. Con l’aiuto di alcuni collaboratori tibetani, il PCC ha dunque stilato una lista di candidati, che non includeva il piccolo Gedhun, e alla fine ha scelto il nuovo Panchen Lama inserendo i nomi della lista in quella che viene chiamata l’Urna d’oro. Il nome estratto è stato quello di Gyaincain Norbu, un bambino di cinque anni, che da allora è stato istruito per divenire appunto l’undicesimo Panchen Lama sponsorizzato dal PCC e una delle voci ufficiali del buddhismo cinese fedele al Partito.

Nel 2007, l’Amministrazione statale per gli affari religiosi ha istituzionalizzato il diritto del PCC di stabilire quali lama siano autorizzati a reincarnarsi, di controllare il processo di identificazione delle reincarnazioni e di certificare quali reincarnazioni siano autentiche attraverso il bizzarro Ordine n. 5. Questa norma è stata ampiamente criticata all’estero, dove si è ridicolizzato il paradosso di un partito convintamente ateo che rivendichi però il controllo su chi si reincarna. Eppure continua a essere un mezzo potente che permette al PCC di tenere sotto controllo il buddhismo sia in Tibet sia altrove.

Sia in Tibet sia in Mongolia vivono infatti migliaia di stirpi di lama reincarnati. Il Dalai Lama, il Panchen Lama, il Karmapa (cioè il capo di un’altra grande scuola del buddhismo tibetano, la Karma Kagyu) e il Jebtsundamba Khutuktu (il capo della sezione mongola della scuola Geluk, la cui carica è al momento vacante) sono forse i più conosciuti a livello internazionale, ma ve ne sono molti altri.

Il modo in cui la nuova reincarnazione di un lama defunto venga o debba essere identificata è argomento disputato. Oggigiorno è una questione squisitamente politica e la storia diventa spesso oggetto di partigianeria. Il 24 settembre 2011 il Dalai Lama ha pubblicato un messaggio ufficiale, frequentemente citato, con cui spiega che i candidati alla reincarnazione vengono individuati seguendo le indicazioni dei quattro oracoli tibetani maggiori (medium che incarnano le divinità e che parlano in trance): Lamo, Nechung, Gadong e Samyé. Altre indicazioni da seguire sono i segni che appaiono miracolosi e le visioni che si mostrano presso i laghi sacri, per esempio il Lhamoi Latso, a sud di Lhasa. Il Dalai Lama ha inoltre rivelato come sia possibile, e come nel tempo sia fattualmente accaduto, che l’anima di un lama si scomponga in molti frammenti, suscitando quindi reincarnazioni multiple del medesimo lama, e come possa anche verificarsi l’“emanazione” di un successore mentre un lama è ancora in vita. Il Dalai Lama ha recentemente ripetuto questi stessi concetti nell’intervista resa pubblica il giorno di Natale.

Ma cosa accade quando vengono individuati due o più possibili candidati? In via ipotetica, secondo la teologia della scuola Geluk, tutti possono essere reincarnazioni del medesimo lama defunto, ma in pratica ogni alta carica può essere ricoperta soltanto da una persona. Nel famoso messaggio citato, il Dalai Lama parla del «metodo di divinazione che utilizza una pallina di pasta di pane (zen tak) davanti a una immagine sacra, invocando sopra di essa il potere della verità». Il metodo consiste nel racchiudere le risposte appunto in palline di pasta di pane che vengono fatte rotolare in una bacinella fino a che quella con il nome del prescelto non ne rotoli fuori.

Il Dalai Lama parla anche dell’Urna d’oro, un sistema imposto nel 1792 dall’imperatore Qianlong, della dinastia Qing (1711-1799): i nomi dei candidati venivano introdotti in un’urna appositamente forgiata, la quale veniva poi impiegata per estrazioni casuali. Ebbene, la massima autorità del buddhismo tibetano sostiene che «questa procedura è stata imposta dalla dinastia Manciù, ma i tibetani non vi prestano fede poiché manca di spiritualità. In verità, se venisse usata onestamente, la si potrebbe considerare simile al metodo divinatorio delle palline di pasta di pane». Nel messaggio del 2011 il Dalai Lama sottolinea del resto come l’Urna d’oro sia stata usata solo due volte per individuare il detentore della carica che egli ricopre oggi, cioè per l’undicesimo Dalai Lama (1838-1856) e per il dodicesimo (1857-1875), ma in verità una volta soltanto, giacché il dodicesimo era già stato chiaramente individuato attraverso i metodi tradizionali. L’Urna d’oro è stata quindi utilizzata due volte per riconoscere il Panchen Lama: l’ottavo (1855-1882) e il nono (1883-1937).

Come detto, questa storia è di per sé una questione politica. Gli storici del PCC insistono infatti nel dire che l’utilizzo dell’Urna d’oro sia comunemente accettato, laddove invece la controparte tibetana tende a minimizzarlo. Il citato messaggio del Dalai Lama si fonda su un’analisi ragionevolmente accurata degli studi esistenti in materia, ma da allora sono emersi documenti nuovi. I pronunciamenti ufficiali degli imperatori Qing erano scritti in cinese, benché il famoso editto dell’imperatore Qianlong che promuoveva il sistema dell’Urna d’oro, il Discorso sui lama (喇嘛说 / 喇嘛說) del 1792, sia stato scolpito sulla pietra nel Tempio Yonghegong di Pechino in quattro lingue, compresa quella manciù. A studiare i documenti scritti in lingua manciù, che differisce dal cinese e che era la lingua madre della dinastia Qing, sono stati soprattutto gli storici dell’Università Harvard.

libri

Uno di loro, Max Oidtmann, ha appena pubblicato Forging the Golden Urn: The Qing Empire and the Politics of Reincarnation in Tibet (Columbia University Press, New York 2018), lo studio più completo oggi esistente proprio sulla questione dell’Urna d’oro. Oidtmann e il Dalai Lama concordano nell’affermare che una delle ragioni principali che ha favorito l’introduzione del sistema dell’Urna d’oro sia stato il tentativo dei gurkha nepalesi d’invadere e di conquistare il Tibet nel 1791, e il conseguente intervento delle truppe della dinastia Qing per proteggere quei territori contro di loro. Tuttavia Oidtmann, studiando la corrispondenza segreta in lingua manciù tra l’imperatore Qianlong e i suoi primi consiglieri, giunge ora alla conclusione che i Qing non fossero particolarmente preoccupati dei nepalesi. Altrettanto importante, o anche di più, era infatti la condizione in cui si trovava la Mongolia e il desiderio dei Qing di evitare una potenziale ribellione del ceto aristocratico mongolo attraverso l’imposizione dei propri figli come reincarnazione dei lama mongoli più eminenti.

Ma soprattutto Oidtmann sottolinea che, diversamente dal PCC, l’imperatore Qianlong credeva realmente nella reincarnazione. Era infatti un buddhista devoto, che del sistema della scuola tibetana Geluk condivideva molti concetti. Mentre i primi rapporti segreti in lingua manciù erano favorevoli all’atteggiamento tenuto dai lama di alto grado durante la guerra contro i nepalesi, presto emerse invece un’immagine differente che accusava la corruzione dei lama, e in particolare quella degli oracoli maggiori, della debolezza del sistema tibetano a fronte dell’invasione gurkha. Insieme ai problemi che viveva allora la Mongolia, questi rapporti convinsero l’imperatore Qianlong del fatto che il buddhismo tibetano fosse stato corrotto dalla ricerca sistematica delle reincarnazioni dei lama di alto livello sempre tra i bambini delle medesime famiglie. Benché credesse nella reincarnazione, era più scettico verso gli oracoli tibetani (non verso gli oracoli e i medium in generale, però, tant’è che ne aveva di personali): li riteneva infatti personaggi autorevoli, ma moralmente dubbi, che operavano liberi da qualsiasi controllo politico. Ne ordinò quindi la soppressione, istituendo appunto l’uso dell’Urna d’oro, un sistema di estrazione simile a una lotteria che gli imperatori Ming avevano introdotto con successo per eliminare corruzione e nepotismo nell’assegnare ai propri burocrati specifici incarichi nelle province.

Il successo ottenuto dall’imperatore Qianlong fu però solo parziale dal momento che l’Urna d’oro venne usata meno spesso di quanto gli storici cinesi affermino attualmente, per quanto, forse, più di quanto credano oggi i tibetani. Perché i dati raccolti da Oidtmann dimostrano come l’Urna sia stata usata tra il 1793 e il 1825 grosso modo per cercare metà delle reincarnazioni più importanti, e complessivamente 79 volte per 52 diverse stirpi maggiori, ma che, a dispetto dell’opposizione imperiale, i nomi da inserire nell’Urna venivano spesso scelti dagli oracoli.

Il punto principale sostenuto da Oidtmann è che il PCC e alcuni storici tibetani od occidentali sbaglino nel vedere nell’Urna d’oro uno strumento dell’affermazione di sovranità o dell’imperialismo cinesi sul Tibet. Lo studioso statunitense è convinto che troppi eventi dei secoli XVIII e XIX vengano interpretati alla luce delle problematiche contemporanee. Di fatto l’imperatore della dinastia Qing e parte dell’élite della scuola Geluk condividevano l’obiettivo di rafforzare il sistema della reincarnazione dei lama per renderlo più credibile, fornendo così maggiore stabilità al buddhismo tibetano e al Tibet stesso. Le resistenze dei tibetani all’Urna d’oro si sono dunque verificate in quei casi particolari in cui i tibetani hanno ritenuto di avere già un candidato forte e chiaramente identificato: pertanto non sarebbero da interpretare come manifestazioni di nazionalismo.

Nel secolo XX la situazione è però cambiata. Nel 1936 la Repubblica Nazionalista Cinese ha promulgato la legge sulla reincarnazione dei lama che il PCC avrebbe poi usato nel 2007 come modello per l’Ordine n. 5. E nel corso del Novecento la resistenza all’Urna d’oro è davvero divenuta una componente dell’indipendentismo tibetano.

Il PCC è stato consapevole della delicatezza del problema della reincarnazione dei lama fin dal suo arrivo al potere, ma ha deciso di agire solo dopo la morte del decimo Panchen Lama, nel 1989. Secondo Oidtmann, il fatto che il Partito abbia promulgato l’Ordine n. 5 solo nel 2007 significa evidentemente che al suo interno vi sono state numerose discussioni.

Lo studioso si pone quindi un’ultima domanda: per quale motivo il PCC continua a scegliere da sé le reincarnazioni dei lama deceduti, quando che sa che fra i tibetani sia del Tibet sia della diaspora gode di pochissima credibilità? La risposta di Oidtmann è che «l’audience designata per le performance della lotteria dell’Urna d’oro moderna è sempre stata la maggioranza han della popolazione cinese, non certo i tibetani né della Regione autonoma del Tibet né delle aree autonome limitrofe». Le reincarnazioni appoggiate dal PCC, compreso l’attuale Panchen Lama scelto dal Partito, non sono prese sul serio dai tibetani, ma in Cina sono diventate di moda e autorevoli come presunti emblemi di una tradizione buddhista antica, autentica e in qualche modo misteriosa, propagandati in a templi buddhisti di diverse obbedienze. E anche all’estero, quando le reincarnazioni appoggiate dal PCC viaggiano per presentare a certi occidentali ingenui un buddhismo “tibetano” amico del comunismo. Probabilmente è questa una delle ragioni per cui l’attuale quattordicesimo Dalai Lama non sorvola affatto con facilità sul fatto che forse il PCC presenterà come eletto dall’Urna d’oro l’uomo che esso sceglierà come quindicesimo Dalai Lama, e sta promuovendo una vasta consultazione fra lama e intellettuali tibetani e mongoli per capire come prevenire questa manovra altamente probabile.

Contrassegnato con: Buddhismo Tibetano, Tibet

Massimo Introvigne

Massimo Introvigne (Roma, 14 giugno 1955) è un sociologo italiano delle religioni. È il fondatore e il direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), una rete internazionale di studiosi di nuovi movimenti religiosi. Autore di una settantina di libri e di più di 100 articoli nel campo della sociologia della religione, è stato l’autore principale dell’Enciclopedia delle religioni in Italia. Membro del comitato editoriale dell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion e del comitato direttivo di Nova Religio, pubblicato alla University of California Press, dal 5 gennaio al 31 dicembre 2011 ha avuto nell’ambito dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) il ruolo di “Rappresentante per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione, con un’attenzione particolare alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni”. Dal giugno 2012 al dicembre 2016 è stato coordinatore dell’Osservatorio della Libertà Religiosa, istituito dal ministero degli Esteri italiano per monitorare lo stato della libertà religiosa a livello mondiale.

www.cesnur.org/

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