Sotto l’egida britannica, 23 Paesi denunciano la detenzione di massa degli uiguri. La Cina risponde mobilitando il consueto “asse della vergogna”. Assenti purtroppo alcuni Stati europei, fra cui l’Italia
Massimo Introvigne
Ancora una volta le Nazioni Unite, in questa occasione nel contesto dell’Assemblea generale, sono state testimoni di una guerra di documenti a proposito dei terribili campi per la trasformazione attraverso l’educazione dello Xinjiang, dove il PCC detiene in condizioni disumane tre milioni di uiguri e di musulmani appartenenti ad altre etnie turcofone.
Il 29 ottobre il Regno Unito ha presentato un documento a nome di un gruppo di ventitré Paesi; si tratta di Albania, Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Giappone, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia, Stati Uniti d’America e naturalmente il Regno Unito.
Le carte fanno riferimento a «prove fondate di detenzione di massa; interventi finalizzati a limitare le pratiche culturali e religiose; sorveglianza diffusa e applicata in modo ingiustificato agli appartenenti all’etnia uigura; altre violazioni dei diritti umani e altri abusi perpetrati nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang».
I 23 Stati «esortano il governo cinese a mettere in pratica le proprie leggi nazionali e i vincoli e le indicazioni internazionali in relazione ai diritti umani, compresa la libertà di religione o di credo, nello Xinjiang e in tutto il Paese». Si richiede al governo cinese di fermare «immediatamente» le persecuzioni con ogni mezzo, «ivi compresa l’astensione dalla detenzione arbitraria degli uiguri e di persone appartenenti ad altre comunità musulmane».
I firmatari del documento hanno chiesto a tutti gli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite di applicare il principio di non-repressione e di astenersi dall’estradare nella madrepatria i rifugiati cinesi per motivi religiosi. Hanno inoltre richiamato «il governo cinese a concedere all’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e per le procedure speciali l’accesso immediato e senza limitazioni ai territori dello Xinjiang». Più in generale, conclude il documento, Pechino ha il dovere di fornire una volta per tutte risposte credibili «in relazione alle limitazioni del diritto della libertà religiosa o di credo e al diritto di partecipare liberamente alla vita culturale» per tutti i suoi cittadini.
È interessante e al tempo stesso triste rilevare come i Paesi dell’Unione Europea legati alla Cina per via della Belt and Road Initiative, per esempio Italia, Portogallo e Grecia, non abbiano firmato (ha firmato invece il Lussemburgo, che pur fa parte della Belt and Road).
La Cina ha mobilitato per tutta risposta il consueto “asse della vergogna” e ha proclamato che nello Xinjiang tutto è a posto, tanto che il PCC dovrebbe piuttosto essere lodato per «i notevoli risultati ottenuti nell’ambito dei diritti umani». Questa volta, invece della Russia era la Bielorussia a capo dei cinquantaquattro Stati dell’“asse della vergogna” che hanno sottoscritto la contro-dichiarazione, ma del resto i due Paesi sono strettamente legati. I firmatari in questo caso comprendono Pakistan, Russia, Egitto, Bolivia, Repubblica Democratica del Congo e Serbia, nessuno dei quali rappresenta esattamente un modello di rispetto dei diritti umani.