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Perché gli uiguri sono perseguitati?

22/11/2018Massimo Introvigne |

Kashgar Street
Kashgar Street (ChiralJon – CC BY 2.0)

Massimo Introvigne

Dal punto di vista delle pubbliche relazioni, per il PCC la persecuzione degli uiguri musulmani è il disastro peggiore dopo l’imponente repressione del Falun Gong attuata negli anni 2000. Perché la stanno attuando?

Il 6 novembre, la Revisione periodica universale, ha confermato che, per le relazioni pubbliche del Partito Comunista Cinese (PCC), l’internamento di circa un milione di uiguri nei temibili campi per la trasformazione attraverso l’educazione è il disastro peggiore, dopo la persecuzione ad ampio raggio scatenata contro il Falun Gong negli anni 2000. I diplomatici cinesi e il viceministro cinese degli Affari esteri hanno dovuto ascoltare denunce sulla persecuzione degli uiguri da un Paese dopo l’altro. Ma perché il regime cinese perseguita gli uiguri?

Per questa domanda esistono due risposte facili, ma false, o, nella migliore delle ipotesi, incomplete. La prima è che il PCC non ama la religione in generale. Questo è vero, ma non spiega perché la persecuzione degli uiguri abbia raggiunto le drammatiche dimensioni attuali solo negli ultimi anni. Il PCC è da sempre avverso alla religione. Perché solo adesso attacca gli uiguri su così vasta scala?

La seconda risposta è che il PCC teme il “separatismo” e il “terrorismo” uiguri. Questa è ovviamente la linea sostenuta dal PCC, che non lesina sforzi per vendere questa versione ai media e ai governi del mondo. Sebbene i risultati che il PCC sta ottenendo a livello mediatico siano sempre più deludenti, ogni tanto qualche media ripete ancora questa spiegazione.

Ora, un fondamento di verità in queste affermazioni esiste, ma la propaganda del PCC la dilata a dismisura per proporre due falsità. Il fondamento di verità consiste nel fatto che nello Xinjiang esistono davvero alcune piccole organizzazioni terroristiche che predicano un islam ultra-fondamentalista. Ma in questo campo tutte le statistiche sono politiche. Le autorità cinesi sostengono che nel secolo XXI gli attacchi terroristici abbiano causato circa 700 vittime. Gli uiguri sostengono invece che questo numero sia gonfiato. Tuttavia alcuni attacchi terroristici si sono effettivamente verificati, alcuni uiguri hanno espresso simpatie per al-Qa’ida (che a propria volta ha cercato di trarre profitto propagandistico dalla causa uigura) e un piccolo numero di uiguri si è unito all’ISIS (300 secondo i cinesi, poco più di 100 secondo altri osservatori indipendenti). Nel 2009, a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, gli uiguri hanno scatenato rivolte per protestare contro la brutalità della polizia. I disordini hanno causato (secondo le statistiche ufficiali) 197 morti, molti dei quali cinesi han. Ma la repressione brutale fatta seguire dal PCC potrebbe avere causato un numero uguale di vittime.

Questi eventi hanno portato la propaganda del Partito a trarre due conclusioni false. La prima è che la maggior parte degli uiguri simpatizzerebbe per i terroristi. Si tratta di un’affermazione non provata, che viene utilizzata per giustificare la detenzione di un milione di uiguri nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione. In realtà la maggior parte dei leader e delle organizzazioni uigure ha respinto il terrorismo con fermezza.

La seconda conclusione errata è che l’instaurazione del regime del terrore nello Xinjiang e il metterne dietro le sbarre una percentuale significativa della popolazione permetterebbero di eliminare il terrorismo. È invece vero il contrario. Quasi tutti gli esperti internazionali di fenomeni terroristici che abbiano studiato il caso degli uiguri affermano che l’attuale ondata di repressione indiscriminata sia la ricetta migliore per permettere ai gruppi terroristici, finora piccoli e impopolari, di reclutare nuovi adepti nello Xinjiang.

Occorre inoltre considerare che il PCC classifica come “terrorismo” ogni forma di critica al regime e ogni attività politica mirante all’indipendenza o alla vera autonomia della regione. Ma si tratta di azioni che non corrispondono affatto alle definizioni correnti di “terrorismo”.

Per comprendere meglio quanto sta accadendo è però necessario spiegare chi siano gli uiguri. Il nome «uiguri» ha designato i sudditi del canato uiguro, un vasto impero esistito dal secolo VIII al secolo IX. Poi la dinastia cinese Tang sconfisse e conquistò quel canato, spingendo molti uiguri a migrare dall’attuale Mongolia all’attuale Xinjiang, dove gli sfollati si sono uniti a una popolazione locale di origine molto antica e dove, attraverso un processo graduale iniziato nel secolo X, si sono convertiti all’islam. Al tempo il nome “uiguri” veniva usato di rado e la zona abitata da questa etnia turcofona musulmana era chiamata soprattutto Altishahr (“Sei città”).

Il canato buddista degli zungari (situato in quella che oggi è la parte settentrionale dello Xinjiang) conquistò l’Altishahr nel secolo XVII. Ciò persuase alcuni abitanti musulmani della regione (ma non tutti) a schierarsi con la dinastia cinese Qing quando questa mosse guerra al canato zungaro. La serie di guerre che ne sono seguite si è poi conclusa nel secolo XVIII con quello che gli storici hanno chiamato il “genocidio degli zungari”, allorché la repressione cinese, le malattie e la carestia causarono la morte di 500-800mila zungari. I musulmani dell’Altishahr sono quindi passati dal dominio zungaro a quello cinese fin a quando il signore uzbeko della guerra Yakub Beg (1820-1877) non ha coalizzato i musulmani della regione contro la Cina, fondando un regno musulmano. La Cina ha sconfitto Beg nel 1866 e nel 1874 ha annesso la regione chiamandola Xinjiang, che significa “Nuova frontiera” o “Nuova terra di confine”. In questa fase, il nome «uiguri» veniva utilizzato solamente per designare gli abitanti medioevali del canato uiguro. Gli abitanti musulmani di quello che i cinesi chiamavano «Xinjiang» venivano chiamati «turki» (cioè «turcofoni»), «gente con il turbante», o semplicemente «musulmani».

Il nome «uiguri» è riemerso solo nel secolo XX, insieme a un movimento che contestava l’annessione dello Xinjiang alla Cina, denunciava il colonialismo cinese e l’uso del nome «Xinjiang» per la regione (che proponeva di chiamare «Turkestan orientale»), e chiedeva l’indipendenza. Queste rivendicazioni hanno trovato un alleato nell’Unione Sovietica, che riteneva di poter fare dell’“Uiguristan” un’altra repubblica sovietica a maggioranza musulmana come i vicini Kirghizistan, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan. La cosa ha ovviamente creato un complicato gioco politico, diplomatico e militare tra sovietici e Cina nazionalista. Per due volte, grazie al sostegno e alla protezione dei sovietici, è stata fondata nello Xinjiang una repubblica indipendente quanto effimera, denominata Repubblica del Turkestan orientale, la prima volta dal 1933 al 1934 e la seconda dal 1944 al 1949.

La conquista del potere da parte del PCC in Cina ha però posto termine a questi esperimenti. Il presidente Mao ha proclamato lo Xinjiang “autonomo”, ma l’autonomia è esistita solamente sulla carta. Di fatto masse di cinesi di etnia han sono stati mandati a vivere nello Xinjiang, anche se sul punto le statistiche sono controverse. Il numero stesso di abitanti uiguri nello Xinjiang è oggetto di contestazione, ma alcuni studiosi ritengono che stia a metà tra gli 8,6 milioni censiti dai cinesi (11 milioni, contando altri musulmani che vivono nello Xinjiang, fra cui i kazaki) e i 15 milioni rivendicati dalle organizzazioni uigure all’estero. Il numero totale di abitanti dello Xinjiang è comunque di 21 milioni.

La maggior parte degli uiguri non si considera del resto “cinese”, giacché di etnia diversa, di religione diversa e di lingua diversa. La maggior parte di loro non parla minimamente cinese. Non esistono prove, però, del fatto che la maggioranza degli uiguri sia politicamente “separatista” o sostenga l’indipendenza dalla Cina, sebbene, anche in questo caso, la repressione e la persecuzione alimentino chiaramente il separatismo. Per inciso, Bitter Winter è un periodico che si occupa di diritti umani e di libertà religiosa. Non prende quindi posizione su questioni politiche quali l’appartenenza o meno alla Cina di alcune regioni. Utilizza quindi la denominazione «Xinjiang» perché è la designazione più comune e comprensibile di quell’area.

Non vi è inoltre alcuna prova che il separatismo uiguro si sia diffuso maggiormente negli ultimi decenni, mentre le prove delle persecuzioni inflitte agli uiguri dal PCC sono molte. Ma perché, ancora, gli uiguri vengono perseguitati? La maggior parte degli studiosi ritiene, e il sottoscritto è d’accordo, che le ragioni siano religiose più che politiche. La politica leggermente più indulgente attuata dal PCC durante la presidenza di Deng Xiaoping (1904-1997) ha permesso al revival islamico che ha interessato tutta l’Asia centrale di estendersi anche allo Xinjiang. Al tempo stesso, il crollo dell’Unione Sovietica ha eliminato il vecchio timore cinese che le repressioni contro i musulmani nello Xinjiang potessero indurre i sovietici a riesumare il progetto di un “Uiguristan” sotto controllo sovietico in un’area di cruciale importanza strategica. E la politica di inasprimento della repressione di tutte le religioni in generale voluta dal presidente Xi Jinping è, in ordine di tempo, l’ultima causa della situazione attuale.

Perché dunque gli uiguri sono perseguitati? Benché i timori di “separatismo” possano giocarvi un qualche ruolo, in sostanza la risposta è che gli uiguri sono perseguitati perché il forte risveglio dell’islam verificatosi tra loro ha spaventato il regime. Il PCC ha temuto e ancora teme che la rinascita musulmana possa espandersi ad altri gruppi musulmani non uiguri della Cina, i quali poi uniscano le forze per dare vita a una rinascita religiosa generale che un giorno potrebbe scalzarne il potere. La conclusione logica è quindi che, nonostante nessuna persecuzione sia mai esclusivamente religiosa, gli uiguri sono effettivamente vittime di persecuzione religiosa.

Contrassegnato con: Campi di concentramento in Cina, Musulmani Uiguri

Massimo Introvigne

Massimo Introvigne (Roma, 14 giugno 1955) è un sociologo italiano delle religioni. È il fondatore e il direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), una rete internazionale di studiosi di nuovi movimenti religiosi. Autore di una settantina di libri e di più di 100 articoli nel campo della sociologia della religione, è stato l’autore principale dell’Enciclopedia delle religioni in Italia. Membro del comitato editoriale dell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion e del comitato direttivo di Nova Religio, pubblicato alla University of California Press, dal 5 gennaio al 31 dicembre 2011 ha avuto nell’ambito dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) il ruolo di “Rappresentante per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione, con un’attenzione particolare alla discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni”. Dal giugno 2012 al dicembre 2016 è stato coordinatore dell’Osservatorio della Libertà Religiosa, istituito dal ministero degli Esteri italiano per monitorare lo stato della libertà religiosa a livello mondiale.

www.cesnur.org/

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