All’inizio del secolo XVII, nella Chiesa Cattolica si è consumata una delle più importanti controversie di tutta la storia del cristianesimo cinese, le cui conseguenze si avvertono ancora oggi. In Cina, i missionari gesuiti hanno infatti proposto un metodo nuovo di evangelizzazione, sostenendo che ai nuovi convertiti al cattolicesimo dovesse essere consentito continuare a partecipare a rituali che onoravano gli antenati o Confucio, visto che si trattava di riti civili o culturali e non religiosi. Lo stesso principio si applicava ai riti politici che onoravano l’imperatore. I gesuiti proposero anche traduzioni innovative della terminologia cristiana in lingua cinese e suggerirono di minimizzare il simbolo della croce, che i cinesi non comprendevano appieno. Questa “sinizzazione” del cattolicesimo fu però osteggiata dagli ordini cattolici più antichi, in particolare dai francescani e dai domenicani, i quali sostenevano che l’approccio gesuitico comportasse un tradimento del cristianesimo e conducesse al sincretismo.
La controversia sui cosiddetti “riti cinesi” durò un secolo e alla fine fu risolta dal Vaticano contro i gesuiti. Eppure se ne discute ancora oggi. Chi difende la posizione dei gesuiti ritiene che solo un cattolicesimo “sinizzato” abbia la possibilità di diventare religione maggioritaria della Cina. La questione dei “riti cinesi” resta ovviamente importante per il cristianesimo cinese attuale, ma ha pure una dimensione universale. Di fatto, la domanda “Quanto il cristianesimo deve adattarsi alla cultura cinese per diventare importante e attraente per i cinesi?” è simile ad altre in cui “cinese” viene sostituito con “africana”, “nativo-americana” e addirittura “del secolo XXI”.
Molti uomini di allora intuirono che quella controversia fosse importante ben oltre la Cina. Il numero 269 del periodico Historia Mexicana (Storia messicana), datato 1° luglio 2018, pubblica un importante articolo dei professori José Antonio Cervera, del Colegio de México, e Ricardo Martínez Esquivel, dell’Università del Costa Rica, intitolato Puebla de Los Ángeles entre China y Europa. Palafox en las controversias de los ritos chinos (“Puebla de Los Angeles tra la Cina e l’Europa: Palafox e la controversia sui riti cinesi”, vol. LXVIII, pp. 245–284). L’articolo discute l’intervento nella controversia sulla Cina del vescovo cattolico di Puebla, in Messico, Juan de Palafox y Mendoza (1600-1659). Palafox era un presule famoso e influente, ma il fatto che intervenga dal lontano Messico su una controversia riguardante la Cina conferma l’impatto globale che ebbe la questione dei riti. Bitter Winter ha intervistato uno degli autori dell’articolo, il professor Ricardo Martínez Esquivel.
La questione dei “riti cinesi” è fondamentale per la storia del cristianesimo in Cina. Può riassumerla?
La questione dei “riti cinesi” continua a essere ancora oggi (2018) argomento di dibattito negli ambienti culturali cinesi sia ecclesiastici sia apologetici, e naturalmente pure tra gli studiosi. Decisivo non solo nella storia del cristianesimo in Cina, il dibattito su queste controversie ha influito anche sulla sorte dei gesuiti e sull’orientamento assunto dalla Chiesa Cattolica nella dinamica di evangelizzazione di culture diverse dal proprio ethos fin dal secolo XVII. A partire dal secolo XX, il dibattito ha poi seguito un percorso che dalla sfera puramente teologica si è spostato a quella accademica.
La controversia presenta tre problemi e tre fronti. Queste le tre domandi principali che furono poste: come creare o produrre nella lingua cinese i termini soteriologici ed escatologici di base necessari all’evangelizzazione? Cosa fare con le cerimonie in onore degli antenati e di Confucio? E in quale misura i cristiani possono partecipare ad attività cinesi considerate pagane? I missionari di tre aree diverse discussero questi tre aspetti con i membri di altri ordini religiosi, con il Vaticano e con i cinesi stessi (a livello imperiale, locale o personale).
In pochi anni, la controversia passò dall’ambito missionario cinese agli spazi dell’insegnamento ecclesiale, alle università e alla pubblicazione di libri e di trattati in Europa e in America, divenendo parte di un movimento globale di idee che non aveva precedenti storici. All’epoca, la questione dei “riti cinesi” fu discussa a Pechino, Canton, Roma, Parigi, Lisbona, Salamanca e Madrid fino alla stessa Puebla de Los Angeles, nella Nuova Spagna.
Nell’articolo scritto con il professor Cervera lei suggerisce che la questione dei riti non possa essere separata da altre due: se fosse appropriato che in Cina la predicazione insistesse meno sulla croce e sulla crocifissione di Gesù Cristo, visto che la crocifissione era difficile da spiegare ai cinesi, e come tradurre i termini cristiani in lingua cinese. Iniziamo con la crocifissione. Qual era il problema, esattamente?
Il simbolo della croce era un argomento molto controverso. I cinesi non riuscivano a comprendere che Dio fosse morto. Inoltre, in una cultura in cui l’obbedienza all’autorità era importantissima, non si riusciva a capire perché onorare quella morte per croce, punizione, quella, eseguita dalle autorità. Al loro arrivo in Cina, i domenicani e i francescani accusarono i gesuiti di avere praticamente nascosto la croce ed essi stessi, per reazione, diedero molta importanza (specialmente all’inizio del proprio insediamento) a questo simbolo cristiano.
E i problemi di traduzione?
Per produrre, in cinese, i concetti di base necessari all’evangelizzazione esistevano fondamentalmente due possibilità: la prima, inventare parole nuove con accostamenti fonetici tra le lingue europee e il cinese; la seconda, riprendere, con accento cristiano, termini già esistenti nella cultura cinese. Ora, in quale misura il processo interculturale delle traduzioni missionarie produsse concetti nuovi senza sacrificarne l’intenzionalità semantica cristiana?
I termini fonetici condussero a insegnamenti superficiali e a un’assimilazione difficile, mentre quelli tratti dalla tradizione cinese “contaminarono” il cristianesimo con ideali e con precetti controproducenti per il dogma. Nel caso dell’archetipo divino, dopo averlo costruito per mezzo di un approccio fonetico, alla fine fu considerato più utile servirsi di concetti cinesi “simili” all’idea della divinità cristiana. Dopo la pubblicazione, nel 1604, del Tianzhu Shiyi del missionario gesuita Matteo Ricci (1552-1610), si notò un’equivalenza tra i termini Shangdi (“Signore altissimo”), Tian (“Cielo”) e Tianzhu (“Signore del Cielo”). Il primo termine, a partire dalla dinastia Shang (1766-1122 A.C.), cercò di far assomigliare il cristianesimo al confucianesimo. Il secondo diede un’idea impersonale dell’essere divino, molto diversa dalla concezione cristiana. Il migliore dei tre fu il terzo, usato, tra l’altro, ancora oggi. Tuttavia, Ricci, come altri gesuiti successivi, utilizzò i tre termini come equivalenti.
Ciò detto, l’inculturazione lessicale dell’archetipo del Dio cristiano era stata alla mercé delle convezioni culturali della lingua usata dalle società cinesi. Se Ricci identificò Shangdi con il latino Deus (Dio), fu perché i cinesi avevano già inculturato il valore lessicale di quel termine “teistico” nel dominio semantico cinese. Cioè, a prescindere dal successo o dal fallimento della proposta di Ricci, la cristianizzazione dei concetti cinesi (e, in particolare, confuciani) sarebbe stata impossibile da realizzare se non vi fossero state le manifestazioni anticristiane della tarda dinastia Ming (1368-1644). La riconfigurazione semantica di Shangdi in Deus produsse infatti le reazioni negative di molti tra confuciani e buddhisti nella prima metà del secolo XVII. In altri termini, è l’iniziativa autoctona quella che spiega il successo dell’introduzione interculturale del concetto: perché si tratta di una costruzione sociale dal basso e non di un’imposizione, come fu nelle colonie.
Il vostro articolo riguarda il vescovo Juan de Palafox di Puebla de Los Angeles (oggi Puebla, in Messico). Come entrò il presule nella controversia?
Palafox venne coinvolto nel dibattito scrivendo due lettere, la prima al re Filippo IV di Spagna (1621-1665) e la seconda a Papa Innocenzo X (1644-1655). Il secondo documento fu reso pubblico alcuni anni dopo la morte del vescovo, riprodotto nella sua integralità o inglobato nei trattati dei detrattori della Compagnia di Gesù, soprattutto durante la seconda metà del secolo XVIII.
La partecipazione di Palafox al dibattito fu forse causata dai ruoli civile e religioso che egli svolgeva o forse dai conflitti personali che aveva con la Compagnia di Gesù, spiegati nella risposta alla domanda successiva. Palafox era membro del Consiglio Reale delle Indie (1633-1653), vescovo di Puebla de Los Angeles (1640-1649) e viceré della Nuova Spagna (1642). In quegli anni, la posizione di capitano generale delle Filippine era subordinata al viceregno della Nuova Spagna e ciò comportava che le istituzioni ecclesiastiche dell’America venissero coinvolte nel progetto missionario cinese. I missionari agostiniani, domenicani e francescani che viaggiavano verso le colonie dell’Asia sudorientale, della Cina e del Giappone (o che da quei lidi tornavano in Europa) percorrevano la via transoceanica Atlantico-Pacifico, fermandosi prima nella Nuova Spagna e quindi venendo, allora, ricevuti da Palafox.
Tuttavia, l’evento principale che spinse Palafox nella controversia coincise con la genesi stessa del processo. Mi riferisco al soggiorno nella Nuova Spagna, tra 1646 e 1648, dei missionari domenicani Juan Bautista de Morales (1597-1664) e Domingo Fernández de Navarrete (1610-1689), i quali giungevano da Roma viaggiando verso la Cina ed erano latori del primo decreto pontificio (1645) che proibiva i metodi di evangelizzazione proposti dai gesuiti tra i cinesi. Morales era stato uno dei primi domenicani ad arrivare in Cina, nel 1633, e, dopo dieci anni, tornò a Roma con 17 domande contro la strategia adattativa proposta dai gesuiti. Per quanto riguarda Fernández de Navarrete, si trattava del suo primo viaggio in Cina. L’esperienza che acquisì in seguito nel Regno del Centro lo portò a diventare, con le sue pubblicazioni, uno dei principali protagonisti dei dibattiti globali che su queste controversie si svolsero nella seconda metà del secolo XVII.
Voi sostenete che l’estremo antigesuitismo delle due lettere indirizzata da Palafox a Papa Innocenzo X e al re spagnolo Filippo IV sia tipico solo di un certo periodo della vita del vescovo. Che cosa lo motivò?
Quando Palafox fu vescovo di Puebla de Los Angeles ebbe scontri continui con i gesuiti a causa di punti di vista politici, economici e giurisdizionali diversi. Per esempio, nella Nuova Spagna la Società di Gesù si rifiutò di pagare le decime e quindi il prelato, facendo appello al potere di nomina reale, al Concilio di Trento e alla giurisdizione episcopale, tentò di secolarizzare le parrocchie rurali servite dai gesuiti sospendendo i padri dalle licenze ministeriali, dalla predicazione e dall’amministrazione del sacramento della confessione.
Cosa pensa del fatto che alla fine la Chiesa Cattolica abbia beatificato Palafox nel 2011?
È interessante notare che per beatificarlo ci siano voluti quasi 350 anni (il processo iniziò nel 1666). Merita attenzione anche il fatto che un uomo come Palafox, utilizzato esageratamente come bandiera antigesuitica, sia stato beatificato due anni prima dell’elezione del primo Papa gesuita. Che scopo aveva la Chiesa Cattolica nel farlo? Che significati si è cercato di trasmettere con questa beatificazione? Questo è quanto riesco a pensare da storico, mentre il fatto che Palafox meritasse o no la beatificazione ha più a che fare con la religione e con la fede, un campo che non mi riguarda.
Più in generale, il coinvolgimento di Palafox è una prova di quella che oggi chiameremmo globalizzazione della controversia sui “riti cinesi”. Cosa può dirci questa controversia oggi, in un momento in cui l’“inculturazione” del cristianesimo in Cina è ancora dibattuta?
La questione dei “riti cinesi” è un esempio perfetto per la storia globale delle idee. Si trattò di un fenomeno che perdurò per un lungo periodo e che si svolse in molte zone geografiche di diversi continenti.
L’argomento è ancora rilevante poiché costituisce un elemento importante nel dibattito e nell’analisi dell’adeguamento, dell’inculturazione o dell’adattamento del messaggio religioso ad altre culture. L’incontro interculturale che ebbe luogo in Cina produsse una confusione di riti/rituali (confuciani e cristiani) che portò i gesuiti a scontrarsi non solo con gli ordini mendicanti (francescani, domenicani e altri) e con le idee delle élite cinesi, ma anche con l’imperatore cinese in persona, con la Santa Sede e da ultimo pure con le potenze temporali cinesi ed europee.
Per tutti i motivi indicati prima, ritengo che la partecipazione di Palafox alla controversia del secolo XVII, causata dall’eco che le sue lettere ebbero tra Cina, Europa e Nuova Spagna, come anche dall’ uso che di esse venne poi fatto in Europa durante il secolo XVIII, abbia senza dubbio mostrato la nascita di una primitiva sfera pubblica globale, o di una sorta di sfera proto/preglobale, nella circolazione delle idee. Il problema resta sul tavolo. Oggi continua e addirittura si approfondisce, a prescindere del punto di vista religioso, geografico o politico.