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Quanto costa l’amicizia della Cina?

25/03/2019Ruth Ingram |

I Paesi musulmani sembrano lieti di gettare al vento la solidarietà della umma nel tentativo di ingraziarsi Pechino

Quanto costa l'amicizia della Cina
CREDITS: The Russian Presidential Press – CC-BY-4.0 International

Ruth Ingram

Funzionava così già da tempo: chiunque volesse essere amico della Cina doveva semplicemente essere d’accordo con la sua “Politica unica”. Ma di questi tempi è diventato molto più complicato ingraziarsela. Ne è emerso, infatti, un lato ben più oscuro.

Quando, al principio del secolo XXI, la Cina aveva appena immerso la punta dei piedi nell’oceano delle possibilità del club del Commercio mondiale, si vedevano ogni settimana delegazioni di Paesi piccoli e poveri schierate alla televisione nazionale con inesorabile prevedibilità a stringere mani in ossequio all’inalienabile rapporto di Taiwan con la Cina. Consolidare un accordo commerciale con l’aspirante superpotenza sembrava così facile e i “diritti inalienabili” di Taiwan a essere un Paese indipendente pareva non c’entrassero nulla.

Sono trascorsi diciotto anni da quando Pechino è stata ammessa nella World Trade Organization (WTO) e i giorni in cui girava con il piattino per le elemosine sono definitivamente passati. La Cina è cresciuta esponenzialmente diventando la seconda economia del mondo. Mentre però esplode letteralmente grazie a schemi e a progetti grandiosi, e ai tesori che può regalare, ingraziarsi la Cina è diventato meno semplice e più sinistro. I cerchi attraverso i quali saltare sono più stretti e firmare sulla linea tratteggiata da Pechino è un fatto denso di compromessi e di incertezza. Accettare il suo denaro sonante ha delle implicazioni: significa fare propria la visione cinese del mondo e in definitiva del suo stesso popolo. Dietro ogni “straniero che reca doni” cinese si nasconde un cavallo di Troia carico di un potenziale infido e di sotterfugi, come numerosi Paesi hanno scoperto a proprie spese sulla via del commercio.

Di questi tempi, chi comanda non pretende solo complicità con le proprie aspirazioni espansionistiche; esige anche il silenzio.

La Cina appare inarrestabile. Un tempo anelava semplicemente a far parte del gruppo dei 164 Stati membri del WTO. Ma una volta superato questo spartiacque nel 2001, dopo molte discussioni, Pechino non si è più accontentata di essere una dei tanti, ai margini di una organizzazione enorme. La sua visione aspira a traguardi più ampi. La Belt and Road Initiative (BRI), lanciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping, ha avviato la superpotenza cinese alla rapida conquista della Via della seta sia per terra sia per mare. Secondo il China Daily, l’idea che sottende la BRI è «favorire il coinvolgimento della Cina con il resto del mondo, facendo il possibile per stabilire un ordine mondiale più giusto e ragionevole che possa evidenziare l’importanza della competenza cinese nella costruzione di un futuro prospero per l’umanità».

Il Global Times, portavoce del PCC, prevede che «in futuro la BRI sarà capofila della maggior parte dei progetti di infrastrutture del mondo» e che «la storia mondiale ricorderà la Belt and Road Initiative come uno dei capitoli più significativi della storia cinese e come una grande pietra miliare nello sviluppo della civiltà umana».

L’ambizione della Cina alla leadership mondiale

La rete della BRI abbraccia il Sudest asiatico, l’Eurasia, il Medio Oriente, l’Africa orientale, la Russia e l’Europa. Attraverso molti territori, è composta da tratte di strade, condotti per carburante, percorsi ferroviari e rotte navali attraverso l’Oceano Indiano e almeno 70 Paesi hanno accettato di farne parte. I Paesi dell’ex Europa dell’Est, messi in ginocchio dalla povertà e dal caos politico, costituiscono la base della marcia cinese verso l’Occidente, e questi, insieme ai Paesi mediorientali martoriati dalla guerra, agli Stati africani in grave difficoltà e a gran parte del mondo in via di sviluppo, sono il bacino in cui Pechino riversa denaro a palate. Mentre diffonde rapidamente la propria influenza, brandendo il libretto degli assegni in bianco, i Paesi che hanno firmato sono sommersi da prestiti che non possono ripagare: reti di strade e ferrovie, condotti di petrolio e di gas metano, e la promessa di un’economia sostenuta dal traffico commerciale con Pechino. L’India rappresenta il solo caso di astensione, pur grande e notevole. L’intero progetto costerà quasi 8mila miliardi di dollari statunitensi. La Cina, in cambio, si vedrà assicurate vie alternative verso il Medioriente e l’Europa in caso di blocco di quelle marittime attraverso lo Stretto di Malacca e avrà garantite le necessarie forniture di petrolio e risorse dal Medio Oriente, dall’Eurasia e dall’Africa.

In questo mix tossico si fa strada poi l’islam. Non solo Pechino è impegnata a espandersi ambiziosamente verso l’esterno, ma al momento sta anche combattendo su due fronti contrastanti. I problemi in patria con gli uiguri stanno intorbidendo le acque. Nel momento in cui si destreggia nel commercio e nello sviluppo su un corridoio economico per larga parte islamico, il rapporto ambivalente della Cina, all’interno dei confini, con l’islam e con i musulmani ha attirato l’attenzione non richiesta degli “impiccioni” che si occupano di diritti umani al recente incontro a Ginevra del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (CDUNU).

Felice di consolidare accordi commerciali e di firmare la cessione di miliardi in prestito senza avere alcun “nemico” islamico, la Cina fa del suo meglio per distruggere il medesimo “nemico” entro i propri confini. Pechino non vede contraddizione fra incarcerare in via extra-giudiziale un milione e mezzo di uiguri nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione, mirando a quanto pare a sradicare l’islam dal proprio territorio, e contemporaneamente stringere la mano al torbido principe saudita bin Salman, che ha siglato 25 accordi di cooperazione economica con la Cina per il valore di 28 miliardi di dollari statunitensi, nel forum di investimenti congiunti di febbraio. Pechino non vede conflitto neppure nel bollare come terroristi un milione e mezzo di uiguri senza alcuna prova, senza però dare la stessa qualifica al leader di Jaish-e-Mohammad, Masood Azhar, con base in Pakistan, terrorista a livello mondiale, se ciò significa proteggere un partner della Belt and Road e non rischiare di mandare all’aria un investimento del valore di 62 miliardi di dollari americani nell’ambito del Corridoio economico tra Cina e Pakistan (CECP).

Ma qui vediamo anche la prontezza dei Paesi musulmani di tutto il mondo a gettare in pasto i propri fratelli e sorelle islamici più deboli al leone cinese, senza neppure voltarsi indietro. Soltanto nello scorso dicembre la sottocommissione dell’Osservatorio sulla Islamofobia dell’OIC, della Commissione indipendente permanente sui diritti umani dell’OIC (CIPDU), durante la XIV Sessione regolare di Gedda, in Arabia Saudita, ha segnalato il proprio disagio rispetto al modo di trattare gli uiguri. Si è lamentata del fatto che i regolamenti di deradicalizzazione nello Xinjiang dell’ottobre 2018 fossero «di natura eccessiva, dal momento che qualsiasi attività potrebbe virtualmente ricadere nel campo di azione delle sue disposizioni e consentire alle autorità di giustificare l’esistenza dei campi di detenzione/rieducazione». La Commissione ha espresso preoccupazione per questi «resoconti inquietanti sul modo in cui vengono trattati i musulmani uiguri» e la speranza «che la Cina, che ha eccellenti relazioni bilaterali con la maggior parte dei Paesi dell’OIC così come con la stessa Organizzazione per la cooperazione islamica, faccia del proprio meglio per fare fronte alle legittime preoccupazioni dei musulmani in tutto il mondo».

Il cinico voltafaccia dell’OIC sul modo in cui la Cina si comporta con gli uiguri

Solo pochi mesi dopo l’accordo commerciale del principe bin Salman con la Cina, l’OIC, che rappresenta 56 Paesi islamici di importanza strategica, molti dei quali si trovano lungo il corridoio della Belt and Road, ha comprato nei fatti il loro silenzio in un drammatico voltafaccia, non solo evitando di condannare il comportamento della Cina nei confronti dei loro fratelli uiguri, ma addirittura lodandone gli sforzi per «prendersi cura dei cittadini musulmani». Il Consiglio «accoglie con favore i risultati della visita condotta dalla delegazione del Segretariato generale su invito della Repubblica popolare cinese», afferma, e «auspica ulteriore collaborazione tra l’OIC e la Repubblica popolare cinese».

«C’è un’espressione, “obbedienza preventiva”, spesso utilizzata quando si parla di relazioni con i cinesi», afferma Theresa Fallon, analista della situazione cinese a Bruxelles. Parlando a proposito della dilagante acquisizione dei porti da parte della Cina in tutto il Mediterraneo e del conseguente silenzio delle critiche nei suoi confronti (per esempio il rifiuto della Grecia di opporre il proprio veto alla Cina in relazione alla sua pessima performance rispetto ai diritti umani nel 2017) ha commentato: «Significa prendere ogni decisione con l’intento preciso di non turbare la Cina. Sta già succedendo ed è preoccupante se si considera la posta in gioco. Se si fa caso alla strategia di crescita della Cina nei porti marittimi, si vedrà che hanno investito ovunque nelle periferie dell’Europa. È la strategia dell’anaconda: circonda e stringi».

Per la Cina, non solo le buone relazioni con i Paesi islamici sono fondamentali per una implementazione di successo della Belt and Road Initiative, ma è vitale anche la disponibilità reciproca ad appoggiare la Cina al fine di proteggere gli importanti benefici dei Paesi musulmani che rimangono in buoni rapporti con il Paese. A esclusione della recente lamentela della Turchia, coraggiosamente riportato da Al Jazeera che ha protestato affermando che i campi di internamento sono «un grave motivo di vergogna per l’umanità», un numero davvero minimo di Paesi musulmani ha osato parlarne. In un raro distacco rispetto alle posizioni dell’OIC la Turchia, benché abbia un debito di 3,6 miliardi di dollari statunitensi con la Cina, ha risposto alle voci sulla morte dell’amato poeta e musicista uiguro Abdurehim Heyt implorando la Cina di «porre fine a questa tragedia umana». La Cina ha quindi diffuso un video dell’artista, vivo ma evidentemente provato, e ha difeso caldamente i suoi “centri di insegnamento e formazione” per “studenti estremisti”. Secondo il South China Morning Post, lo scatto della Turchia in realtà difficilmente influenzerà a lungo termine le relazioni con la Cina, considerato che il ponte con l’Europa è fondamentale per le sue ambizioni sulla Via della seta.

Morale bifronte

Una delle cose che Pechino odia di più è il crimine di avere una doppia faccia. Un eminente studioso uiguro, ex preside dell’Università dello Xinjiang, di nome Tashpolat Tiyip, di recente è stato vittima di questa accusa ed è stato condannato a morte.  Eppure, andando incontro al mondo musulmano e aspettandosi che chiuda un occhio rispetto alle atrocità che accadono nello Xinjiang, la Cina usa due pesi e due misure. Mentre il CDUNU cita i pessimi risultati della Cina rispetto ai diritti umani, e si lamenta a gran voce anche della mancata protesta da parte del mondo musulmano, diviene sempre più chiaro che la Cina, entrata nel mondo del commercio mondiale come soggetto debole, ora non risponde più al suo imperativo morale. Sembra per altro che non lo faccia neppure chi fa affari con lei.

Risulta del tutto chiaro che le nazioni musulmane non hanno intenzione di affossare le proprie relazioni così proficue con un Paese che muove le fila del mondo, per mostrare solidarietà ai fratelli più sfortunati. Entrambi i fronti hanno mostrato chiaramente la propria prontezza a gettare al vento i principi e a fare degli affari il nuovo imperativo morale.

Contrassegnato con: Belt and Road Initiative, Detenzione in Cina, Diritti umani, Islam

Ruth Ingram

Ruth Ingram, ricercatrice, collabora assiduamente a varie testate, fra cui il sito dell’Institute of War and Peace Reporting (la principale pubblicazione su Asia Centrale e Caucaso), Guardian Weekly e The Diplomat.

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