Nello Xinjiang la repressione si avvale di 6,7 milioni di dispositivi per il riconoscimento facciale, ma la risposta internazionale non è abbastanza forte
Robert Clark
Più campi, più repressione
Siamo in presenza di un ulteriore preoccupante sviluppo della continua erosione dei diritti umani degli uiguri musulmani che costituiscono la maggioranza nello Xinjiang. La Repubblica Popolare Cinese (RPC) sta praticando con un ritmo in allarmante crescita l’indottrinamento forzato dei bambini uiguri già a partire dall’età prescolare e la loro rieducazione nei «campi per la formazione politica».
Le denunce delle violazioni dei diritti umani che si verificano nella remota regione dello Xinjiang si sono diffuse a partire dal 2017 grazie alla diaspora internazionale degli uiguri. Esse si concentrano sull’uso che la RPC fa dei campi per la trasformazione attraverso l’educazione. Secondo Hu Lianhe, un funzionario del Dipartimento del lavoro del Fronte Unito, si tratterebbe di campi per la «formazione professionale» utilizzati per contrastare l’estremismo islamista e altre minacce politiche interne alla sovranità cinese.
In realtà questi campi sono usati dallo Stato come strumento di repressione contro i cittadini cinesi non appartenenti all’etnia han nello Xinjiang. Nella regione sono state messe in atto politiche statali che tra l’altro prevedono la proibizione dei tradizionali nomi musulmani per i bambini, la messa al bando del digiuno per i funzionari del governo durante il Ramadan (sebbene tale pratica sia consentita ai funzionari musulmani hui), il divieto alle donne di indossare in pubblico il velo e il divieto di avere la barba per gli uomini musulmani.
Nuove prove fornite dal ricercatore indipendente originario dello Xinjiang Adrian Zenz hanno ora documentato tutta la portata di questi recenti sviluppi. I bambini uiguri vengono portati in questi campi, fingendo che si tratti di scuole materne o asili nido e vengono costretti a imparare il cinese mandarino, le narrazioni ufficiali della storia e della cultura cinesi, e contestualmente devono abbandonare le loro pratiche culturali uigure, tra cui la lingua e l’islam. Questo è visto come un tentativo da parte di Pechino di sradicare l’identità culturale uigura prendendo di mira le nuove generazioni, in quello che il dottor Zenz descrive come «genocidio culturale».
Sorveglianza High-Tech
Gli uiguri abbastanza fortunati da non essere internati nei campi, devono sempre più tenere conto del rapido sviluppo della capacità di sorveglianza cinese nello Xinjiang. Con almeno 6,7 milioni di postazioni dotate di software per il riconoscimento facciale, comprese quelle installate nelle moschee e nelle abitazioni, vengono monitorati quotidianamente oltre 2,5 milioni di persone in tutta la regione. Oltre a questo, nel tentativo da parte del governo di comprimere ulteriormente le libertà politiche, l’anno scorso ai residenti nello Xinjiang è stato ordinato di scaricare una app in grado di identificare contenuti sensibili nel traffico telefonico.
In una mossa finale contro i diritti umani e la libertà personale, secondo un rapporto redatto lo scorso anno da Human Rights Watch,le abitazioni di molte famiglie uigure sono state dotate di codici QR, in modo che la polizia possa scansirli e ottenere istantaneamente informazioni dettagliate della famiglia. Secondo i residenti questa pratica è in uso dal 2017. Quella che quindici anni fa era stata implementata come una procedura anti-estremismo e anti-terrorismo contro una manciata di militanti uiguri, ha assunto i connotati di una repressione integrale che si traduce nell’incarcerazione e nell’abietta violazione dei diritti di un’intera etnia.
Grazie alle politiche di sorveglianza di massa basate in gran parte sull’intelligenza artificiale (AI) e sui big data, combinate con la continua pratica delle incarcerazioni ed esecuzioni extragiudiziali, la RPC nello Xinjiang è diventata uno Stato di polizia totalitario di cui il mondo non ha mai visto l’eguale.
Investimenti cinesi nella sicurezza interna
Curiosamente, ci sono due fattori significativi per spiegare come tali pratiche possano essere sostenute. Il primo consiste nell’aumento degli investimenti statali nel mercato interno della sicurezza. Sebbene questo non sorprenda, cionondimeno i numeri sono comunque allarmanti. Il secondo fattore è più difficile da comprendere ed è costituito dalla reazione occidentale. Non si capisce come certe pratiche continuino ad essere totalmente tollerate pur di fronte alla crescente consapevolezza a livello mondiale. Più in particolare, le reazioni degli Stati occidentali variano, dal migliore dei casi costituito dall’incapacità politica di tenere conto della Cina al peggiore dove si è realizzata la collusione tra le aziende tecnologiche occidentali e lo Stato cinese.
Il primo fattore ossia l’aumento della spesa cinese per la sicurezza interna, di per sé non sorprende. Tuttavia, ciò che è profondamente preoccupante è che il livello di spesa confutato dai funzionari statali cinesi come esagerato, in realtà è solo una frazione di un costo reale molto più elevato. La Cina ha liquidato come «ipotetica» e «vaga» l’asserzione secondo cui nel 2016 la spesa per la sicurezza interna sarebbe stata pari a 26 miliardi di dollari statunitensi, ma in realtà l’importo reale è stato stimato essere più vicino a 175 miliardi di dollari statunitensi, sei volte tanto la cifra negata da Pechino.
Le cifre per il 2017 sono ancora più allarmanti. Se si equiparano su una base di parità di potere d’acquisto (PPP), oltre ai miliardi di dollari spesi in iniziative di gestione urbana e tecnologia di sorveglianza legate alla sicurezza, i minori costi e salari che rendono le capacità di sicurezza cinesi molto più elevate per ogni dollaro speso, allora il costo reale sostenuto dalla Cina nel 2017 per la sicurezza interna è stato pari a circa 349 miliardi di dollari statunitensi; più del doppio di quello stimato in 165 miliardi di dollari statunitensi. In effetti, secondo la ricerca condotta da Zenz, la costruzione di strutture legate alla sicurezza nello Xinjiang è aumentata del 213% rispetto al biennio 2016-17, coerentemente con il raddoppio delle spese per le carceri verificatosi nello stesso periodo. Contestualmente la spesa per il contrasto alla criminalità ordinaria è rimasta stagnante.
Ambigue risposte occidentali
Il comportamento degli Stati occidentali è duplice. Diverse prestigiose istituzioni e aziende statunitensi, tra cui dipendenti collegati a Google, SenseNets e il Massachusetts Institute of Technology, sono coinvolte nelle ricerche per lo sviluppo di sistemi basati sull’intelligenza artificiale in collaborazione con aziende controllate dallo Stato cinese, sollevando il timore che la tecnologia statunitense venga utilizzata indirettamente per contribuire alla persecuzione degli uiguri. Sebbene attratte dalla promessa di investimenti queste istituzioni, tenendo conto delle violazioni dei diritti umani in Cina, dovrebbero comunque comprendere l’esiguità della due diligence e del controllo di queste collaborazioni con la Cina.
In secondo luogo, almeno fino a questo mese si è visto molto poco in termini di una risposta internazionale unitaria alla repressione degli uiguri. Ci sono stati commenti o dichiarazioni occasionali da parte di individui, come l’ex ambasciatrice degli Stati Uniti d’America all’ONU Nikki Hayley che, nell’ottobre 2018, ha definito l’incarcerazione di massa degli uiguri come forse il più grande internamento di persone dalla Seconda guerra mondiale in poi. Solo questo mese un organo collettivo di azione politica occidentale ha chiesto con una sola voce la fine della persecuzione degli uiguri.
23 Stati membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (l’Italia ha aderito ai primi 22) hanno chiesto la fine immediata delle detenzioni arbitrarie e delle relative violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. Mancava il sostegno necessario per portare la questione di fronte al Consiglio di sicurezza, ma qualsiasi forma di risoluzione sarebbe stata comunque respinta non solo dalla Cina stessa, che ha il potere di veto, ma anche dalla Russia, che sostiene Pechino nelle sue pratiche di sicurezza.
Oltre alla Russia, altri 36 Stati hanno elogiato i cinesi per come hanno gestito la situazione nello Xinjiang, esaltando la salvaguardia dei diritti umani e contestualmente arginando il terrorismo e l’estremismo nella regione. In realtà, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Se non altro, le misure intraprese potrebbero incoraggiare alcuni uiguri a recarsi all’estero a combattere per le organizzazioni terroristiche islamiche, per esempio in Siria, come rappresaglia per gli abusi subiti.
Gli Stati islamici non si esprimono o sostengono la Cina
L’abietta assenza di tutti gli Stati islamici nel denunciare la repressione degli uiguri, oltre al sostegno che molti influenti Paesi islamici e asiatici forniscono apertamente alla Cina, e tra questi l’Arabia Saudita e il Pakistan, dimostra che molte nazioni rischierebbero di perdere importantissimi investimenti cinesi se denunciassero quanto sta accadendo. Il livello di penetrazione strategica della Cina in alcuni di questi Stati è complesso e vasto, radicato nella Nuova via della seta, che prevede contratti multimilionari per la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali in vari Paesi, contratti che prevedono spesso ingenti pagamenti per il recupero dei debiti, e ciò approfondisce ulteriormente la dipendenza strategica da Pechino.
Il tono minaccioso utilizzato dalla Cina è stato messo in evidenza a partire da marzo di quest’anno. Mentre era in corso la Revisione Periodica Universale, la Cina ha cercato di sopprimere il controllo critico delle sue violazioni dei diritti e di manipolare la revisione fornendo risposte palesemente false alle domande critiche, tra cui la libertà di espressione e la certezza del diritto. Inoltre Pechino ha minacciato le delegazioni, «nell’interesse delle nostre relazioni bilaterali», perché non partecipassero a un comitato sui diritti umani nello Xinjiang.
Cosa si può fare
Mentre la Cina cerca sempre nuovi modi per destabilizzare l’ordine internazionale, un ordine costruito su concetti quali la libertà dall’oppressione politica, la libertà di espressione e il diritto alla vita e alla libertà, la comunità internazionale deve cercare di mettere in discussione il modo in cui la Cina continua a violare questi diritti per oltre dieci milioni di propri cittadini. Offrire sviluppi infrastrutturali alternativi e più sostenibili agli Stati della regione, come l’accordo indiano che prevede l’investimento di 8 miliardi di dollari nel porto di Chabahar in Iran, è un modo per ridurre le vulnerabilità di alcuni Paesi di fronte alla pressione politica cinese, consentendo allo stesso tempo una maggiore libertà diplomatica nel sostenere il miglioramento dei diritti umani.
Inoltre deve essere diffusa in tutto l’emisfero occidentale una maggiore consapevolezza della crisi uigura, sostenendola con un aumento della copertura mediatica delle attività vitali che le ONG stanno conducendo. Questo mese il Ministerial to Advance Religious Freedom ha ospitato il più grande raduno a favore della libertà religiosa nel mondo. Vi hanno preso parte rappresentanti di oltre 100 governi e 500 ONG, l’evento, aperto e concluso dal Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America Mike Pompeo, mirava tra l’altro a incrementare la pressione sulle aziende tecnologiche occidentali che forniscono sia la ricerca sia i componenti impiegati nei sistemi repressivi di sorveglianza evidenziando i loro collegamenti con Pechino.
In tutte le capitali occidentali è necessario più lavoro per evidenziare gli abusi nello Xinjiang. Mentre i diplomatici britannici visitavano la regione nell’agosto 2018, e il Segretario agli Esteri Jeremy Hunt in seguito concordava ampiamente con il generale consenso circa le diffuse violazioni dei diritti umani, c’è stata una ben poco ampia discussione, specialmente tra il mondo accademico e quello dei think tank, circa i potenziali esiti politici per il Regno Unito. La Henry Jackson Society ha tentato di cambiare ciò con una discussione svoltasi in parlamento a gennaio, un dialogo che coinvolgeva i sopravvissuti uiguri e i responsabili politici del Regno Unito, e ha concluso che effettivamente l’immensa leva economica della Cina aveva enormemente ridotto la copertura della situazione nello Xinjiang sia dei media mondiali sia di quelli islamici. L’ampliamento del dibattito pubblico a Londra, Washington e in altre capitali, oltre a una più ampia copertura mediatica degli eventi, potrebbe accelerare i tempi per una condanna a livello mondiale, e, auspicabilmente, ribaltare la situazione della popolazione uigura.
Come si è visto gli Stati possono sentirsi impotenti ad agire isolatamente. Collettivamente però, una presa di posizione unitaria dovrebbe continuare ad essere potenziata e se saranno più numerosi, non permetteranno che la repressione nello Xinjiang costituisca una prova del fallimento collettivo della comunità internazionale incapace di agire unitariamente contro una delle più grandi ingiustizie morali del nostro tempo.