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“The Xinjiang Papers”: punto di svolta o di non ritorno?

19/11/2019Marco Respinti |

Due leader uiguri commentano lo scoop di The New York Times. Cambierà l’atteggiamento del mondo verso i crimini della Cina o tutto rimarrà così com’è?

Dolkun Isa e Marco Respinti
Dolkun Isa e Marco Respinti

di Marco Respinti

«Le indiscrezioni confermano gran parte di ciò che la comunità internazionale sospettava fortemente da mesi. E screditano del tutto la versione cinese, secondo cui nei campi verrebbe fornita formazione professionale o i funzionari di massimo livello agirebbero con magnanimità». Dolkun Isa, presidente del World Uyghur Congress (che ha sede a Monaco, in Germania), commenta così la pubblicazione, da parte di The New York Times, di 403 pagine di documenti provenienti dall’interno del Partito comunista attualmente al potere in Cina.

Isa ha subito la persecuzione dura che il PCC riserva agli uiguri, falsamente e indistintamente descritti da Pechino come terroristi, laddove la loro unica colpa è invece quella di essere credenti (musulmani) e non-han. Quei documenti prospettano infatti la «soluzione finale» (espressione non casuale) che il PCC ha adottato e sta implementando contro la popolazione dello Xinjiang, la regione che gli uiguri preferiscono chiamare Turkestan orientale.

Riecheggiando la notizia della loro pubblicazione i media internazionali si sono concentrati su una espressione presente in quella miniera di informazioni, «assolutamente nessuna pietà», espressione pronunciata da Xi Jinping, segretario generale del PCC e presidente della Repubblica popolare cinese (RPC), dunque mente e motore della «soluzione finale» uigura, durante uno dei colloqui privati avuti con alcuni funzionari dopo una visita da lui condotta nello Xinjiang nell’aprile 2014, allorché venne lanciata una «lotta» totale «contro il terrorismo, le infiltrazioni e il separatismo» da praticarsi attraverso «mezzi dittatoriali».

Ora, singoli individui e interi regimi sono stati incriminati, a livello internazionale, per molto meno di questo. Non però la Cina, oggi il Paese più forte del mondo, i cui soldi molti governi stranieri desiderano o già conservano nei propri portafogli di Stato.

Terrorismo

La parola d’ordine che la RPC ha imparato a usare dopo la tragedia dell’Undici Settembre negli Stati Uniti d’America è questa, ma da allora Pechino l’ha pure ideologicamente distorta, trasformandola in una scusa buona per schiacciare una nazione intera.

Terrorismo? Sì, potrebbe anche essere. Tra gli uiguri potrebbero anche esserci alcuni facinorosi violenti, alcuni criminali, persino alcuni terroristi veri. Possono esserci e ci sono infatti fra tutti i popoli e in tutte le nazioni. Ma il ruolo di un governo giusto è quello di proteggere i propri cittadini e di mantenere l’ordine, identificando con certezza i terroristi veri, fermandoli anche con la forza, se necessario, e garantendo la pace al resto della popolazione. L’obiettivo cui mira un governo totalitario ingiusto, qual è la Cina, è invece quello di soggiogare una nazione intera nella paura solo per giustificare la retorica infinita con cui accompagna la repressione. Ci si dovrebbe insomma domandare perché alcuni uiguri, pochissimi tra loro, possano un tal giorno avere deciso di reagire con la violenza, al limite persino con il terrorismo. La violenza (che rimane cosa distinta dall’uso legittimo della forza) è sempre da biasimare e il terrorismo non ha mai alcuna giustificazione. Ma dopo avere ricordato che la responsabilità è sempre personale, la domanda giusta da porsi: chi ha armato le mani dei terroristi?

Il governo cinese afferma invece che per frenare e per fermare una manciata di (potenziali?) terroristi è necessario trasformare un territorio enorme in una prigione a cielo aperto con milioni e milioni di persone in galera, spesso pure usate come manodopera per la gloria di quell’economia che si sta comprando metà del mondo in contanti. Sì, Pechino sta seriamente dicendo che è cosa buona incarcerare uomini, donne, bambini e anziani senza che sussista alcuna accusa seria contro di loro e senz’alcun processo; che è cosa buona separare i genitori dai figli, consegnando i secondi allo Stato persecutorio che ne ha già distrutto le famiglie; che è cosa buona tracciare il DNA o eseguire scansioni dell’iride praticamente di tutti, onde controllare ogni singolo movimento di ogni persona; e che è cosa buona ridicolizzare e umiliare anziani e donne. Il regime lo dice apertamente rispondendo a The New York Times attraverso Geng Shuang, portavoce del ministero degli Esteri della RPC, il quale «ha accusato il quotidiano statunitense di ignorare le vere ragioni e il successo di quanto la Cina descrive come una campagna atta a porre fine alla povertà, al separatismo e all’estremismo religioso. Secondo Geng, infatti, il fatto che lo Xinjiang non subisca attacchi terroristici da tre anni ‒ cioè più o meno da quando sono state effettuate le incarcerazioni di massa ‒ dimostra la giustezza di questa linea». Dovremmo insomma complimentarci con Pechino e ringraziarla per aver arrestato milioni di persone innocenti.

Ma è vero piuttosto il contrario. I documenti pubblicati infatti «offrono un quadro dall’interno della repressione in atto nello Xinjiang, un quadro che non ha precedenti», continua Isa. «Negli ultimi tre anni il regime ha rinchiuso nei campi di internamento e nelle prigioni almeno un milione di persone fra uiguri, kazaki e altri. Adesso si sa che queste politiche brutali sono state concepite e orchestrate da alti funzionari del governo cinese. E la capacità di Xi Jinping di offuscare e di fuorviare la comunità internazionale sulla natura di quei campi perde terreno giorno dopo giorno. Anche questa stessa fuga di notizie è un elemento fondamentale: dimostra che qualcuno sta mettono profondamente in discussione i metodi cinesi. È un promemoria promettente a fronte di quei milioni di persone che continuano a soffrire sotto il peso dell’intero Partito Comunista».

I nemici sono la religione e la diversità

Nel tentativo di capire perché il PCC odi così tanto gli uiguri, Bitter Winter ha parlato con un’altra figura di spicco della diaspora uigura, Rushan Abbas, presidente di Campaign for Uyghurs a Herndon, in Virginia.

«Tutto ciò che rende unici gli uiguri ‒ la nostra lingua, la nostra cultura e la nostra religione ‒ mette a disagio il PCC», dice la leader uigura, «dal momento che il nazionalismo han, l’atteggiamento fanaticamente sprezzante dei capi del Partito e lo stesso Xi Jinping non tollerano l’irriducibilità etnica di noi uiguri. E un’altra cosa: l’islam, ovvero la religione che gli uiguri professano, è l’elemento che ha impedito la completa assimilazione di questo popolo. Il PCC lo sta capendo adesso ed è per questo che mira ad annientare completamente l’islam tra gli uiguri, usando il pretesto della “guerra al terrorismo”. La nostra religione è insomma considerata una minaccia dal PCC, il quale giudica ogni pensiero originale e qualsiasi fede religiosa un pericolo per il regime comunista cinese. Xi Jinping sta insomma riportando in vita l’ideale comunista in Cina».

Rushan Abbas ritiene infatti che il problema principale siano proprio l’ideologia e l’ideocrazia comuniste. «Comunismo significa eliminazione della libertà di espressione e della libertà di pensiero», continua. «Significa sopprimere la libertà di parola e di credo. E soprattutto significa imporre l’ideologia ufficiale dello Stato a tutti e perseguitare chi pensa o crede diversamente. Questa tendenza inquietante è chiaramente visibile nella persecuzione in atto contro i musulmani uiguri e in quanto sta accadendo ora a Hong Kong. La persecuzione degli uiguri da parte del regime comunista cinese è comunque solo una parte della crescente ondata d’intolleranza che si sta rapidamente espandendo il tutto il mondo. Per questo la nostra lotta dovrebbe stare a cuore a tutti coloro che danno valore ai diritti umani fondamentali della dignità, del rispetto e della libertà religiosa per tutti».

Ora, il continuo silenzio dei Paesi musulmani sulla crisi uigura o persino l’approvazione che alcuni di essi danno alla repressione operata dal PCC è sconcertante, specialmente per chi non è musulmano. Ma certamente lo è ancora di più per i musulmani. «Sono rattristata dall’inanità del mondo musulmano», afferma la Abbas. «In quanto musulmani quel che sta accadendo là ci riguarda direttamente. Ma dov’è, oggi, l’unità dell’islam? Dov’è quella fratellanza che può impedisce che dei nostri fratelli musulmani vengano eliminati? La disinformazione e le versioni adulterate delle cose che il PCC diffonde fanno sì che molti leader di Paesi a maggioranza musulmana e molti capi della comunità islamica non sappiano cosa stia accadendo davvero. Spero sinceramente che se i leader dei Paesi musulmani, e i fratelli e le sorelle islamici, avessero conosciuto la verità di quanto sta accadendo avrebbero ascoltato l’implorazione disperata degli uiguri che chiedono di sopravvivere, si sarebbero schierati dalla loro parte e avrebbero agito di conseguenza».

Un nuovo Patto di Monaco?

Non meno incredibile è la risposta ancora troppo debole data delle Nazioni Unite al genocidio culturale in atto nello Xinjiang. «La Cina sta compiendo un genocidio e se la sta cavando»: Rushan Abbas non sa trattenersi, e non vuole farlo. «E non solo: per i crimini che commette contro l’umanità e per il genocidio culturale che porta avanti la Cina viene pure “premiata” con le Olimpiadi invernali del 2022. Tra le minacce commerciali, la forza d’urto della “Belt and Road Initiative”, la diplomazia che sfrutta la trappola del debito in cui versano i Paesi del mondo e le manovre con cui Pechino riesce a manipolare le Nazioni Unite dall’interno sfruttando la propria posizione di secondo suo contribuente  in ordine di grandezza, la Repubblica popolare cinese è diventata una potenza in grado di intimidire il globo. Nel Sud-est asiatico, in Asia centrale, nel mondo turcofono, nei Paesi a maggioranza musulmana, in Africa e persino in alcune parti d’Europa il regime cinese sta corrompendo e facendo leva su uomini politici, quadri dirigenti, media, studiosi di fama e uomini d’affari di spicco. Grazie a tutto questo la Cina è riuscita positivamente a mettere a tacere tutte le voci critiche che nel mondo ne avevano denunciato il livello vergognoso dei diritti umani e appunto la sta facendo franca».

Tutto perduto, dunque? «Dipende», dice la leader uigura. «Il Comitato Olimpico Internazionale deve salvaguardare i valori fondamentali su cui si reggono le Olimpiadi. Le Olimpiadi sono un evento internazionale unico. Non si tratta di questioni commerciali o di politica. Non si tratta di chi sia il Paese più potente o più ricco. Si tratta di genti che si uniscono per celebrare le proprie differenze. Un Paese che vieta le identità culturali e le lingue, e che ha istituito centinaia, migliaia di campi di concentramento per rinchiudervi un intero gruppo etnico in nome dell’odio e della discriminazione razziale non rispetta affatto quei valori. Con oltre 400 pagine di prove documentali a proprio carico, il Paese oggi colpevole della maggiore violazione dei diritti umani non dovrebbe ospitare giochi che hanno lo scopo di celebrare le differenze dei popoli nel mondo per farli stare assieme».

Una proposta, questa, non esattamente modesta. La dignità della comunità internazionale sarà dunque capace di reggere il peso della verità o vedremo tristemente ripetersi il Patto di Monaco del 1938, quando l’Occidente lasciò che il potere emergente di Adolf Hitler affogasse l’Europa nel sangue e nel dolore volgendo lo sguardo altrove?

Contrassegnato con: Campi di concentramento in Cina, Musulmani Uiguri

Marco Respinti
Marco Respinti

Marco Respinti è il direttore di International Family News. Italiano, è giornalista professionista, membro dell’International Federation of Journalists (IFJ), saggista, traduttore e conferenziere. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e periodici, sia in versione cartacea sia online, in Italia e all’estero. Autore di libri, ha tradotto e/o curato opere di, fra gli altri, Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Régine Pernoud e Gustave Thibon. Senior Fellow al Russell Kirk Center for Cultural Renewal, un’organizzazione educativa statunitense apartitica e senza fini di lucro che ha sede a Mecosta, nel Michigan, è anche socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo del Center for European Renewal, un’organizzazione educativa paneuropea apartitica e senza fini di lucro che sede a L’Aia, nei Paesi Bassi, nonché membro del Consiglio Consultivo della European Federation for Freedom of Belief. È direttore responsabile del periodico accademico The Journal of CESNUR e di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights in China.

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