Stretta del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America sui visti, mentre Washington riafferma il proprio impegno a preservare l’autonomia, l’identità religiosa e i diritti umani in Tibet
di Marco Respinti
La cosiddetta “nuova Guerra fredda”, che si combatte in questi giorni tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti d’America, è una guerra di posizione e di logoramento. In questo quadro gli Stati Uniti sono diventati il Paese più esplicito e attivo del mondo quando si tratta di diritti umani, libertà religiosa e misfatti compiuti dal PCC in Cina. Il proiettile virtuale, ma comunque strategico, più recente è stato sparato alla Cina dal Segretario di Stato, Mike Pompeo, il 7 luglio, attraverso l’Implementing Visa Restrictions Under the Reciprocal Access to Tibet Act.
Si tratta di una legge che implementa restrizioni sui visti per i funzionari del governo della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista di cui sia accertato il “coinvolgimento, in modo sostanziale, nella formulazione o nella messa in atto di politiche legate all’accesso degli stranieri nelle regioni tibetane”, ai sensi del Reciprocal Access to Tibet Act of 2018.
La decisione è una rappresaglia aperta contro l’aperta violazione del diritto a muoversi liberamente in Tibet messa in campo dal regime comunista cinese. Pechino continua sistematicamente a ostacolare gli spostamenti di diplomatici statunitensi e di altri fra funzionari, giornalisti e turisti nella Regione autonoma tibetana (TAR) e in altre aree tibetane», dichiara Pompeo, «laddove invece i funzionari e altri cittadini della Repubblica Popolare Cinese godono di un libertà di accesso negli Stati Uniti molto maggiore». E questo, aggiunge Pompeo, mina «l’equità, la trasparenza e la reciprocità dei rapporti» tra Stati Uniti e Cina.
Il Tibet, osserva Pompeo, è del resto particolarmente rilevante, poiché la possibilità di accedere alle regioni tibetane è sempre più vitale per la stabilità dell’area, dati gli abusi in tema di diritti umani di cui la Repubblica Popolare Cinese si rende responsabile in quei luoghi, nonché l’incapacità di Pechino di evitare il degrado ambientale nei presso le sorgenti dei principali fiumi asiatici».
Ma il documento non è soltanto una risposta tecnica. Contiene anche una dichiarazione di principio che, mentre costituisce la logica immediata della nuova politica adottata da Washington, indica anche la prospettiva generale dell’attuale amministrazione americana. «Resta l’impegno degli Stati Uniti […] a sostegno di una significativa autonomia dei tibetani, del rispetto dei loro diritti umani fondamentali e inalienabili, e della preservazione della loro peculiare identità religiosa, culturale e linguistica. In uno spirito di reciprocità autentica, lavoreremo a stretto contatto con il Congresso degli Stati Uniti per garantire ai cittadini statunitensi pieno accesso a tutte le regioni della Repubblica Popolare Cinese, compreso il TAR e altre aree tibetane».
Si tratta di un’accusa esplicita alla politica praticata dal PCC in Tibet, parallela anche all’accusa che gli Stati Uniti rivolgono alle politiche cinesi nello Xinjiang e a Hong Kong, il che equivale a una denuncia globale dell’intero regime comunista cinese con il suo orribile record in tema di diritti umani.