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Bitter Winter

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19 luglio 2008-2018: la sciagura del Menglian 10 anni dopo

16/07/2018Bitter Winter |

mani con la pistola

Quando i contadini della minoranza Dai protestarono contro un’azienda per la lavorazione della gomma che li sfruttava, la polizia si schierò con l’azienda, uccise due di loro e ne ferì gravemente altri dieci

In Cina, la sciagura del Menglian, occorsa il 19 luglio 2008, destò grande emozione per motivi che vanno al di là del fatto, già in sé tragico, che due persone persero la vita. L’incidente avvenne due settimane prima delle Olimpiadi di Pechino e fu ampiamente interpretato da dissidenti e attivisti per i diritti umani come prova del fatto che, in un conflitto tra operai e grandi aziende che li sfruttano, il Partito Comunista Cinese (PCC), teoricamente partito dei lavoratori, era pronto a schierarsi dalla parte dell’avidità più spietata. Confermò anche l’abilità del PCC nel nascondere le attività più brutali di cui si macchiava sotto una cortina di fake news, un fenomeno che oggi si ripete anche nel campo della persecuzione religiosa.

Nel decimo anniversario dei fatti, Bitter Winter vuole dunque ricordare quanto accadde. I nostri corrispondenti si sono recati sul posto e da fonti locali, che ovviamente preferiscono rimanere anonime, hanno raccolto foto e sequenze filmate.

I Dai sono un gruppo etnico che vive nella parte meridionale della provincia dello Yunnan, imparentati con le popolazioni maggioritarie della Tailandia e del Laos (il loro nome viene anche scritto “Tai”). Il 19 luglio 2008, meno di un mese prima delle Olimpiadi di Pechino, le autorità repressero con violenza gli abitanti Dai del villaggio Mang’a, nella contea di Menglian, nello Yunnan. Agenti di pubblica sicurezza e poliziotti armati spararono sui Dai, uccidendone due e ferendone gravemente oltre dieci. Il massacro scatenò subito grande fermento, balzando all’attenzione di persone di ogni estrazione sociale in tutta la Cina e addirittura all’estero.

Ciononostante, i funzionari del PCC posero la zona sotto sequestro proibendo ai giornalisti di entrare per realizzare interviste e inchieste, e nascosero sia le prove della repressione attuata dalla polizia sia le testimonianze di chi aveva visti gli agenti aprire il fuoco sugli abitanti del villaggio, rendendo così difficile al mondo esterno rendersi conto di quanto fosse davvero accaduto. Tuttavia i ricordi e i documenti sono rinati, e oggi, a dieci anni di distanza, siamo in grado fare luce sui fatti.

 

I coltivatori di gomma sfruttati

Nel marzo 1982, persuasi dal sindaco Ai Ya (un uomo che all’epoca aveva 30 anni) venti diversi gruppi di persone del villaggio di Meng’a, nel comune di Mengma, firmarono con un’azienda un contratto iniquo per la coltura di alberi della gomma. Come previsto dal contratto, una volta che gli alberi furono cresciuti, nel 1990, i contadini iniziarono a raccogliere la gomma. Quando l’azienda acquistò il prodotto, pagò però loro il 30% del prezzo a cui il lattice veniva venduto al chilogrammo, trattenendo il resto per sé. Inoltre, l’amministrazione locale chiese addirittura che ogni abitante del villaggio versasse ai comitati e ai gruppi del villaggio un’imposta del 10% per ogni chilo di materiale prodotto. Con tutte queste sottrazioni a fronte di un guadagno di 0,3 renminbi per ogni chilo di lattice acquistato dall’azienda, un abitante del villaggio che avesse coltivato 300 alberi della gomma e raccolto circa kg 600 di lattice in un mese, avrebbe guadagnato soli 180 renminbi (circa € 23,00).

Inoltre, ogni mese l’azienda inviava personale proprio a ispezionare le incisioni fatte dai coltivatori negli alberi. E, mentre offriva ricompense mensili in denaro (2, 3 o 5 renminbi) a ogni contadino i cui alberi soddisfacevano gli standard, se veniva invece riscontrato anche solo un minimo danno alla corteccia, imponeva una multa di 30, 50 o addirittura 80 renminbi. Sommando tutto, pur lavorando sodo, i coltivatori, che dovevano levarsi presto al mattino, si coricavano tardi e lavoravano con poche pause, non riuscivano ugualmente a guadagnare il necessario per mantenere le proprie famiglie. Mancava loro il denaro per il cibo e per il vestiario, e i ragazzi dovevano rinunciare alla scuola perché le loro famiglie non potevano permettersi i costi delle rette.

Nonostante tutto, nei dodici anni trascorsi dal 1990 al 2002, gli abitanti di Meng’a hanno continuato a vendere gomma liquida alla suddetta azienda. Alla fine, una parte di loro, consapevole che in quel modo non avrebbe potuto nemmeno sopravvivere, vendette gli alberi per i quali aveva versato sudore e lacrime per più di un decennio a 5 renminbi l’uno, cercando altri mezzi di sostentamento.

Dopo il 2003, il mercato della gomma andò alle stelle, raggiungendo circa i 18mila renminbi a tonnellata e, nei momenti di picco massimo, addirittura i 28mila. Eppure l’azienda pagava ai contadini solo 6.500 renminbi a tonnellata.

Nell’aprile 2008, i membri del comitato di villaggio di Meng’a furono informati che i coltivatori del distretto vicino (appartenenti al comitato del villaggio di Banbian, nel comune di Gongxin, sempre nella contea di Menglian) avevano portato la gomma da loro raccolta nella città-contea di Jinghong, capoluogo della prefettura autonoma Dai di Xishuangbanna, per venderla ricavandone tra gli 8 e i 10 renminbi al chilo, laddove il prezzo che l’azienda offriva era salito solamente da 0,3 a 0,7 renminbi per chilo. I coltivatori si rivolsero più volte all’amministrazione locale nella speranza che essa li avrebbe aiutati nel negoziato con l’azienda; ottennero però soltanto rifiuti e addirittura minacce.

 

Gli abitanti del villaggio si organizzano

Nell’agosto 2007, per cercare di sopravvivere, gli abitanti di Meng’a elessero dei rappresentanti per ognuno dei gruppi coinvolti nel contenzioso, per un totale di 14. Guidati da un coltivatore di nome Yang Fazhan, tentarono di rivolgersi ai livelli più alti dell’amministrazione attraverso una petizione consegnata al direttore Wang dell’Ufficio per le Petizioni dell’amministrazione provinciale dello Yunnan, all’Ufficio per le petizioni dell’amministrazione della città di Pu’er, nello Yunnan, e all’amministrazione popolare della contea di Menglian, nella città di Pu’er. Nell’ottobre dello stesso anno, l’avvocato Ma Minhui (un uomo che all’epoca aveva 43 anni, di uno studio legale di Pu’er) assunse il caso. I coltivatori nutrivano grandi aspettative e speravano che i diversi livelli dell’amministrazione sarebbero stati in grado di dar loro voce, risolvendo il problema che li attanagliava: non avere di che nutrirsi a sufficienza né vestiti da indossare. Trascorsi più di dieci giorni, ancora non avevano però alcuna novità. Non avendo altra scelta, il 16 maggio 2008 si recarono a Jinghong per vendere la gomma raccolta.

 

Inizia la repressione

Cercando altri acquirenti, però, i contadini intaccarono gli interessi sia dei funzionari dell’amministrazione cittadina sia dell’azienda per la lavorazione della gomma. Fu per questo che l’11 luglio 2008 le autorità pubbliche e l’azienda si unirono per trarre vantaggio dalle Olimpiadi. Accusando i coltivatori di «assembramenti e di disturbo della quiete pubblica», inviarono a Meng’a più di mille tra funzionari della Pubblica sicurezza e poliziotti in attesa di ordini.

Il 14 luglio, verso le alle 11 di sera, il rappresentante del villaggio, Yang Fazhan, fu arrestato da cinque funzionari dell’Ufficio di Pubblica sicurezza della contea e condotto in manette nella prigione di Pu’er.

Il 16 luglio, quindici abitanti di Meng’a (fra cui due donne di etnia Wa) furono arrestati illegalmente. I poliziotti attraversarono il villaggio casa dopo casa per arrestare i membri del comitato dei coltivatori: usarono spray al peperoncino per ferirne agli occhi, li ammanettarono e li incappucciarono con dei sacchi neri. Li rinchiusero poi nella prigione della contea di Menglian, rilasciandoli solo dopo sette giorni di custodia cautelare senza ordinanza giudiziaria.

Nel pomeriggio del 16 luglio, un altro rappresentante del villaggio di nome Ai Hu (un maschio all’epoca 34enne), fu arrestato dalla polizia mentre guidava nella conta di Menglain con della gomma da vendere. Ammanettato, fu anch’egli incappucciato con un sacco nero in testa, fu portato nello stesso carcere e fu analogamente trattenuto in custodia cautelare per sette giorni.

Alle 9 del mattino del 17 luglio, l’avvocato Ma Minhui era al lavoro nel suo studio a Pu’er quando 11 tra poliziotti della sezione cittadina dell’Ufficio di Pubblica sicurezza della contea di Menglian lo arrestarono e lo rinchiusero nel carcere di Pu’er, trattenendolo per sei giorni.

 

La tragedia del 19 luglio

Il 19 luglio, alle 4,47 del mattino pioveva quando funzionari dell’Ufficio di Pubblica sicurezza e poliziotti armati giunsero nel villaggio con pistole, fucili, pistole a dardi tranquillanti e mitragliatrici, e indossando giubbotti antiproiettile, elmetti in metallo e scudi. Montavano a bordo di 49 veicoli fra automobili, pullman e veicoli militari. Bloccarono tutte le strade adiacenti, impedendo a chiunque di entrare o uscire. Internet, i telefoni e l’energia elettrica erano stati interrotti in tutta la contea. Gli agenti parcheggiarono i veicoli sul ciglio della strada e iniziarono gli arresti. Entrarono nelle abitazioni di cinque dei rappresentanti del gruppo Menglang del comitato dei coltivatori di Meng’a e li portarono via. Furono tutti picchiati violentemente con i manganelli, ammanettati e incappucciati con sacchi neri.

Questo è il dettaglio di ciò che successe loro:

Ai Cai, maschio, all’epoca 43enne: mentre dormiva, cinque tra poliziotti armati e funzionari dell’Ufficio di Pubblica sicurezza sfondarono la porta della sua casa e lo picchiarono con i manganelli mentre ancora dormiva. Prima di trascinarlo in auto, lo legarono con le mani incrociate sulla schiena e gli misero un sacco nero sulla testa.

Ai San, maschio, al tempo aveva circa 30 anni: al mattino presto, più di dieci fra funzionari e poliziotti armati sfondarono la porta della sua abitazione. Ai San e la moglie stavano dormendo; lo spray al peperoncino che fu spruzzato loro negli occhi li accecò. L’uomo fu ammanettato con le mani sulla schiena, coperto con un sacco nero sul capo e trascinato su un’auto. I poliziotti lo picchiarono con un manganello in gomma.

Ai Mo, maschio, allora 38enne: la sua casa fu circondata dalla polizia e da una dozzina circa di funzionari pubblici che sfondarono la porta per arrestarlo. Ai Mo e i suoi familiari dormivano. I poliziotti picchiarono sua moglie e sua figlia di otto anni. Poi smisero con la bambina quando questa scoppiò in lacrime per lo spavento. Lasciarono perdere anche la moglie quando la donna, terrorizzata, iniziò a tremare. Ai Mo fu immobilizzato con le mani dietro la schiena, incappucciato con il solito sacco nero e picchiato violentemente con manganelli di gomma.

Aiyi Nanbo, maschio, all’epoca 45enne: verso le cinque del mattino l’uomo si era alzato per recarsi in bagno quando una dozzina circa di funzionari irruppero in casa sua per arrestarlo, picchiandolo violentemente con manganelli di gomma.

Aiyi Bingsuo, allora 42enne: dormiva quando la polizia fece irruzione e, prima che l’uomo potesse reagire, lo ammanettò, mettendogli un sacco nero in testa. In quel momento indossava solo la biancheria intima. Fuori dalla casa, gli agenti lo presero a pugni e a calci. Una volta caricatolo su una delle loro auto, hanno iniziato a picchiarlo violentemente con manganelli in gomma.

Queste brutalità hanno subito acceso il rancore degli abitanti del villaggio, che, furiosi, si sono precipitati fuori dalle case inseguendo i poliziotti e i funzionari dell’Ufficio di Pubblica sicurezza. I posti di blocco erano presidiati da agenti armati che sorvegliavano le strade e che non lasciavano avvicinare nessuno alla strada dove venivano eseguiti gli arresti. Verso le 6, cioè all’alba, prendendo le parti dei cinque incarcerati, la gente ha iniziato a muoversi. I poliziotti ne hanno ignorato completamente gli appelli, sigillando l’area con un nastro e urlando attraverso un megafono in cinese mandarino: «Non vi avvicinate oltre; se lo farete, apriremo il fuoco!».

Era la prima volta che quella gente si trovava in una situazione simile. Per di più non parlava cinese mandarino e quindi non era ovviamente in grado di capire quel che i poliziotti dicevano. Per questo continuarono ad avanzare. Il capo-folla, un uomo Dai di nome Ai Shangruan, cadde a terra morto crivellato dai proiettili dalla polizia. Sua figlia, Yu Ruidan, implorò la polizia di mandarlo all’ospedale: ma non solo la polizia non lo fece, in più, con un atto di mera crudeltà, sparò anche sulla ragazza, che crollò a terra in stato di shock. Quando suo fratello minore, Ai Di, si accorse dell’accaduto, si portò impulsivamente davanti ai funzionari dell’Ufficio di Pubblica sicurezza inginocchiandosi a implorare pietà per la sorella. I poliziotti avevano però ormai perso completamente il controllo e fecero fuoco per più di 30 volte consecutive su quel ragazzo di 21 anni. Era il solo che nel villaggio studiava nell’università. La sua giovane vita è stata spenta in un soffio.

Gli altri abitanti del villaggio sono fuggiti urlando in tutte le direzioni sotto il fuoco incrociato dei poliziotti. L’atmosfera era sempre più terrificante e la gente si disperdeva nel caos. Gli agenti erano però decisi a non lasciar fuggire quella gente e hanno continuato a far fuoco, spingendo tutti verso il bosco. Quando un uomo scattò una foto con un cellulare, un atto contrario alle normative della polizia, il fuoco si concentrò su di lui. In totale, più di dieci persone vennero ferite gravemente dal fuoco della polizia.

 

Censura e fake news

La repressione operata dai poliziotti del PCC e la sparatoria contro il villaggio scatenò l’indignazione dei villaggi adiacenti. Temendo quindi che la protesta potesse dilagare, dopo undici ore i funzionari del PCC hanno rilasciato i cinque rappresentanti del gruppo di Menglang, consentendo loro di tornare a casa e di occuparsi delle vittime.

Una volta arrivati sul posto, i dirigenti delle amministrazioni della provincia, del comune, della contea e del distretto, temendo che la notizia si diffondesse, hanno cercato di bloccare la diffusione dei racconti della repressione e del massacro. Agenti armati sulla scena del crimine hanno impedito alle persone, con qualunque mezzo, di scattare foto e di raccogliere informazioni. A una squadra operativa è stato ordinato di restare di stanza nel villaggio, due agenti ogni gruppo, onde monitorare i movimenti dei familiari delle vittime. Alla fine i dipendenti del PCC si sono trattenuti nel villaggio per circa un anno, continuando a inculcare negli abitanti questo messaggio: «Il Partito Comunista è buono, le sue politiche sono buone, e il governo è buono». Per corrompere gli aggrediti sono stati improvvisati insignificanti gesti di benevolenza: piccole somme di denaro, del riso, olio, frutta e qualche altro regalo. Sono stati anche fomentati litigi tra gli abitanti, portando surrettiziamente molti di loro a ostracizzare le famiglie delle vittime al punto che ancora oggi non hanno rapporti con loro.

Dopo questi fatti, gli abitanti di Meng’a hanno dovuto indebitarsi per ricomperare quegli alberi della gomma che avevano già coltivato per più di venti anni a prezzi che variavano dai 90, ai 140 ai 180 renminbi l’uno. A tutt’oggi, molti di quei coltivatori non sono ancora in grado di restituire i prestiti.

Poi, al termine di tutto, i funzionari pubblici hanno stabilito che il massacro era stato un «incidente di massa», dichiarando che la polizia era intervenuta semplicemente per «convocare le parti coinvolte nel contenzioso» e quindi, «dopo averli convocati, avviare un corso di educazione giuridica a beneficio degli abitanti del villaggio». Però «gli agenti sono stati attaccati da più di 500 persone, cosa che ha provocato il ferimento di diversi di loro; e questi, sentendosi in grave pericolo, dopo molteplici tentativi di dissuadere la folla, disimpegni e colpi di avvertimento andati a vuoto, non hanno avuto altra scelta che intervenire sui rivoltosi con pistole antisommossa. Siccome alcuni dei rivoltosi si trovavano a poco distanza dai polizotti, ne è derivata la morte due persone».

Le autorità hanno attribuito tutta la colpa e tutta la responsabilità del massacro ai Dai sfruttati e perseguitati che sono stai bollati come “delinquenti”. Allo stesso tempo, durante una conferenza stampa tenuta dopo l’incidente, i funzionari del PCC hanno dichiarato pubblicamente che la sparatoria da parte della polizia e la morte degli abitanti del villaggio erano state una «legittima difesa ragionevole» e che pertanto nessuna misura disciplinare avrebbe colpito i funzionari responsabili.

Secondo chi ha vissuto la tragedia in prima persona, le cose non sono però affatto andate così. Se lo scopo delle autorità fosse stato solo quello di convocare e arrestare i cinque coltivatori di gomma, che bisogno ci sarebbe stato di fare intervenire poliziotti in massa da più di 40 chilometri per lanciarli su Meng’a alle prime ore del mattino, tagliando preventivamente Internet, telefoni ed energia elettrica in tutta la contea, e al contempo bloccare le strade circondando il villaggio? Perché tutto questo se si trattava solo di una “convocazione” da parte della polizia? Questo sanguinoso atto di repressione è stato chiaramente premeditato, pianificato in anticipo dalla polizia e dal PCC. Il messaggio era chiaro. In Cina non viene tollerato alcun dissenso, sia nel nome della libertà della religione o della giustizia sociale.

 

Attenzione: questi video presentano scene e contengono sequenze filmate che potrebbero urtare la sensibilità degli spettatori.

Contrassegnato con: Brutalità della polizia, Diritti umani, Perseguitati a morte

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Bitter Winter

Bitter Winter intende riferire sul modo in cui alle religioni sia consentito o meno operare in Cina e sul modo in cui alcune di esse siano gravemente perseguitate dopo essere state etichettate come “xie jiao”, ovvero come “insegnamenti eterodossi”. Abbiamo intenzione di pubblicare notizie difficili da trovare altrove, analisi e dibattiti.

Posta sotto la direzione di Massimo Introvigne, uno dei più famosi studiosi delle religioni a livello internazionale, Bitter Winter è un’impresa condivisa da studiosi, attivisti dei diritti umani e membri di organizzazioni religiose perseguitate in Cina (alcuni di essi hanno scelto, per ovvie ragioni, di rimanere anonimi).

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