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Appello all’azione per salvare gli uiguri

11/04/2019Paul Prososki |

Al grido di «Mai più», una vasta coalizione di attivisti chiede al governo statunitense di agire per fermare il genocidio culturale in atto in Cina

La folla alla manifestazione
La folla alla manifestazione

Paul Prososki

Indice: Ricordando il massacro di Baren – Una normativa esigente – Parlano i leader uiguri – Concentrarsi sull’azione – Solidarietà cristiana agli uiguri

Ricordando il massacro di Baren

Sabato 6 aprile a Washington era una giornata primaverile bella e soleggiata. Mentre migliaia di turisti affollavano i parchi della capitale per godersi l’ultima occhiata dei famosi ciliegi in fiore, circa un migliaio di persone si sono radunate in una piazza del centro per affrontare un problema più urgente.

Il giorno prima, il 5 aprile, ricorreva il XXIX anniversario del massacro di Baren. Nel 1990, in quello stesso giorno, i musulmani uiguri della municipalità di Baren, vicino a Kashgar, nella regione autonoma dello Xinjiang, erano scesi in piazza per protestare contro gli aborti forzati imposti dalla politica cinese del figlio unico. In risposta, il governo aveva dispiegato alcune unità dell’Esercito popolare di liberazione (PLA) per imporre l’ordine e nei giorni successivi migliaia di manifestanti sono stati uccisi.

Per commemorare le vittime e per chiedere un’azione contro la costante repressione e le violenze ai danni dei musulmani uiguri, gli organizzatori hanno organizzato la “Manifestazione a sostegno dello Uyghur Human Rights Policy Act e dello Uyghur Act”. Gli oratori hanno dichiarato all’unisono che il tempo delle parole è finito e che ora è necessario agire. Hanno affermato che i suddetti provvedimenti legislativi sono vitali per esercitare pressioni sulla Cina affinché cambi la sua politica disumana e, dunque, hanno chiesto al Congresso statunitense di approvarli.

Una normativa esigente

Lo Uyghur Human Rights Policy Act si propone di documentare gli abusi subiti dagli uiguri e da altre minoranze etniche nello Xinjiang, fornire protezione ai cittadini statunitensi e ai residenti permanenti contro le pressioni e le ritorsioni, applicare tutti gli strumenti a disposizione del Congresso, del Tesoro, del Dipartimento del commercio, e del Dipartimento di Stato, tra cui le sanzioni previste Global Magnitsky Act, vietare la vendita di beni e servizi statunitensi a qualsiasi entità cinese che operi nel campo della sorveglianza o dell’internamento di minoranze etniche e dei credenti, al fine di determinare un cambiamento della politica cinese. Lo Uighur Intervention and Global Humanitarian Unified Response Act (Uighur Act) orienta l’azione del Segretario di Stato nel dare priorità alla difesa delle minoranze etniche nello Xinjiang nell’ambito delle relazioni con altri Stati, esclude dagli appalti pubblici statunitensi qualsiasi entità che partecipi alla repressione nello Xinjiang, impone restrizioni alle esportazioni statunitensi nella regione e infine adotta misure per proteggere i giornalisti e le organizzazioni non governative.

Uiguri e sostenitori raggiungono la manifestazione
Uiguri e sostenitori raggiungono la manifestazione

La scena che si presentava sabato era davvero sorprendente: persone provenienti da tutto il mondo si sono radunate nella Freedom Plaza sulla Pennsylvania Avenue, perfettamente posizionata tra la Casa Bianca che si trova due isolati a ovest, e il Trump International Hotel a due isolati a est. Centinaia di partecipanti sventolavano le bandiere blu del Turkestan orientale (denominazione che gli uiguri preferiscono a Xinjiang) insieme al rosso, bianco e blu delle bandiere statunitensi e canadesi. I manifestanti provenivano da Montreal e Toronto in Canada, dalla Germania e altrove in Europa e da molti stati statunitensi tra cui New York, Colorado e Minnesota. Erano presenti molte famiglie uigure, ma anche numerosi non uiguri sono venuti a dimostrare la loro solidarietà, e tra essi musulmani provenienti da molti contesti etnici, cristiani e buddhisti cinesi e attivisti per i diritti umani americani.

Parlano i leader uiguri

La manifestazione è stata organizzata dal World Uyghur Congress (WUC) e dalla Burma Taskforce. Omer Kanat, del WUC, ha aperto la manifestazione, di cui è anche stato il presentatore. Il programma è iniziato con il canto dell’inno nazionale statunitense eseguito da un giovane uiguro che indossava gli abiti etnici tradizionali, seguito dall’inno nazionale del Turkestan orientale. Questo duplice richiamo alla situazione degli uiguri e ai valori che gli Stati Uniti rappresentano, e dunque al dovere che gli Stati Uniti hanno di difenderli, è stato il motivo ricorrente della giornata.

Kanat ha aperto il programma ringraziando tutti i partecipanti per essere venuti in una bella giornata di primavera a prendere posizione per la giustizia. Il leader uiguro ha definito il trattamento subito dal proprio popolo un «grande crimine mondiale», una «distruzione culturale» e un «genocidio». Ha anche sottolineato l’eterogeneità della coalizione di attivisti riunitasi e l’ha messa in relazione ai valori che gli Stati Uniti rappresentano.

Un momento della manifestazione
Un momento della manifestazione

Kanat ha anche introdotto un altro tema, che ha costantemente percorso tutto l’evento, ovvero quello del «Mai più!», peraltro un classico della retorica pubblica uigura, ricordando che il mondo civilizzato, dopo l’Olocausto degli anni 1930 e 1940, aveva detto «Mai più!», ma che oggi ci si ritrova nuovamente in una situazione simile. Dunque, se il «Mai più!» costituisce un impegno serio, è tempo di agire.

Molti oratori hanno quindi ripetuto «Mai più!». Dolkun Isa, presidente del WUC, che ha sede a Monaco, in Germania, ha dichiarato che per rendere reale il «Mai più!» è necessaria la legislazione del Congresso degli Stati Uniti. Ilshat Hassan, presidente della Hyghur Americans Association, ha citato Raphael Lemkin (1900-1959), l’ebreo polacco sfuggito all’Olocausto, che ha guidato la stesura della convenzione internazionale contro il genocidio, aggiungendo che quanto avviene in Cina è esattamente ciò contro cui Lemkin ci ha messo in guardia. Nury Turkel, presidente dello Uyghur Human Rights Project, ha citato l’ambasciatore Michael Kozak del Bureau of Democracy, Human Rights e Labour del Dipartimento di Stato americano, dicendo che una situazione come quella attuale in Cina «non si vedeva dagli anni 1930». Il sopravvissuto all’Olocausto, Sami Steigmann, dell’Holocaust and Human Rights Education Center ha fatto lo stesso collegamento, dicendo che l’Olocausto è accaduto perché nessuno si è opposto ad esso per fermarlo, ora i governi di tutto il mondo devono prendere posizione contro questo nuovo genocidio. Il dottor Yang Jianli, presidente della Citizen Power Initiatives for China, ha osservato ironicamente che gli uiguri soffrono sotto il «fascismo con caratteristiche cinesi» e che per salvarli bisogna essere fedeli all’impegno «Mai più!». Anche Kristina Olney della Victims of Communism Memorial Foundation ha usato l’espressione «Mai più!» in riferimento ai crimini della Germania nazista e a quelli commessi dai regimi comunisti in tutto il mondo.

Dolkun Isa ha poi introdotto un altro tema ricorrente durante la manifestazione, ossia che il tempo delle parole è passato e che ora è tempo di agire. Ha definito quello attuale un momento critico per la Cina e per il mondo. Ma ha anche aggiunto che nonostante tutto c’è motivo di sperare, perché finalmente la pressione internazionale sta aumentando. Ha quindi ricordato che in agosto la Cina è stata costretta ad ammettere la detenzione in massa degli uiguri nel corso dell’Esame sulla situazione dei diritti umani svolto dalle Nazioni Unite. In ottobre, poi, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che condanna i campi per la trasformazione attraverso l’educazione. Il Canada ha seguito l’esempio poco dopo e nel 2019 anche la Turchia «ha rotto il silenzio». Isa ha poi citato una lista bipartisan di alti funzionari statunitensi che hanno dato l’allarme sulla situazione: tra questi, il vicepresidente Mike Pence, il presidente della Camera dei deputati Nancy Pelosi, il Segretario di Stato Mike Pompeo, l’ambasciatore itinerante per la libertà religiosa nel mondo Sam Brownback e il senatore Marco Rubio. Ha sottolineato che è tempo di passare dalle parole ai fatti, e che gli Stati Uniti e l’Unione Europea devono lavorare insieme per esercitare pressioni sulla Cina. Il Congresso deve dunque approvare lo Uyghur Human Rights Policy Act e lo UIGHUR Act e l’Amministrazione imporre sanzioni ai funzionari ai sensi del Global Magnitsky Act. Solo allora il «Mai più!» sarà reale.

Concentrarsi sull’azione

Numerosi oratori hanno ribadito l’importanza di passare all’azione. Oltre a ripetute richieste al Congresso affinché approvi i progetti di legge e implementi le sanzioni previste dal Magnitsky Act, molti hanno anche chiesto di vietare ufficialmente la vendita di beni e servizi a qualsiasi entità che abbia legami con la macchina repressiva in Cina. Sanzionare qualsiasi società americana che venda prodotti elettronici o di altro tipo che possano essere utilizzati per monitorare la popolazione e il divieto di importazione di qualsiasi prodotto fabbricato nel sistema di lavoro carcerario cinese. Inoltre, diversi oratori hanno chiesto che i consumatori boicottino tutti i prodotti provenienti dalla Cina.

Famiglie pacifiche e bandiere diverse
Famiglie pacifiche e bandiere diverse

Sono state lette dal podio le lettere di numerosi funzionari eletti i quali hanno auspicato un’azione più severa nei confronti della Cina. Il senatore Marco Rubio (Repubblicano-Florida) si è impegnato a «lavorare per porre fine a questi orribili abusi» e ha invitato tutti a parlare con una sola voce. Il deputato Chris Smith (Repubblicano-New Jersey) ha definito il trattamento degli uiguri un «crimine contro l’umanità» e ha chiesto l’applicazione di sanzioni ai sensi del Magnitsky Act. Il deputato Tom Suozzi (Democratico-New York) e il deputato Jim McGovern (Democratico- Massachusetts) hanno inviato lettere di sostegno chiedendo l’intervento del Congresso. Katrina Lantos Swett, presidente della Lantos Foundations for Human Rights and Justice così denominata in memoria del deputato Tom Lantos (Democratico-California, 1928–2008) una grande voce in difesa dei diritti umani nel Congresso, ha mandato una nota in cui afferma che l’intera regione dello Xinjiang è stata «trasformata in una prigione».

Solidarietà cristiana agli uiguri

Insieme a questo gruppo bipartisan di legislatori e parlamentari, una vasta gamma di difensori e gruppi si sono riuniti per sostenere l’azione a difesa gli uiguri. Oltre 300 imam hanno firmato una petizione in cui si chiede il boicottaggio dei beni cinesi e un’azione da parte del governo degli Stati Uniti. Musulmani appartenenti a diversi gruppi etnici sono venuti da Stati vicini per partecipare alla manifestazione. Il difensore della Birmania, l’imam Malik Mujahid, ha contribuito a organizzare l’evento e ha guidato le acclamazioni «USA, USA» per affermare che la difesa degli uiguri (e dei birmani) è un valore americano. Bhuchung Tsering, vicepresidente della International Campaign for Tibet, ha sottolineato la lunga e simile storia delle nazioni tibetana e uigura e ha dichiarato la sua solidarietà per la sofferenza degli uiguri. Rappresentanti della nazione mongola erano presenti per esprimere analoghi sentimenti. Dominic Nardi, della US Commission on International Religious Freedom, ha sottolineato il suo ruolo nel manifestare la preoccupazione bipartisan e istituzionale del governo degli Stati Uniti sulla questione degli uiguri e anch’egli ha chiesto un’azione immediata. Kristina Olney della Victims of Communism Memorial Foundation ha parlato della difficile situazione degli uiguri nell’ambito della tragedia rappresentata dal comunismo, e ha affermato che gli anticomunisti di tutto il mondo stanno dalla parte dei credenti oppressi in Cina e invocano un’azione. Anche i cristiani cinesi hanno partecipato, prestando la loro voce in difesa dei credenti perseguitati di tutte le fedi. Tracy Jiao della Chiesa di Dio Onnipotente ha condannato i tentativi del governo cinese di “sinizzare” tutte le religioni, cristiana, musulmana, buddhista, taoista e altre ancora e ha promesso da parte della sua intera chiesa la solidarietà con gli uiguri contro il “genocidio culturale” cinese.

Mentre sorella Jiao della Chiesa di Dio Onnipotente parla, altri fedeli della sua Chiesa reggono cartelli che esprimono solidarietà agli uiguri
Mentre sorella Jiao della Chiesa di Dio Onnipotente parla, altri fedeli della sua Chiesa reggono cartelli che esprimono solidarietà agli uiguri

Quando le è stato domandato perché i suoi fratelli e sorelle cristiani avevano deciso di manifestare per gli uiguri che sono in maggioranza musulmani, una fedele della Chiesa di Dio Onnipotente, Kunrui Li, ha risposto: «Un numero enorme di uiguri è detenuto nei campi di concentramento. Vengono torturati e maltrattati, qualche volta fino alla morte. Questa è una grave violazione dei diritti umani. Anche se abbiamo credenze diverse dalle loro, stiamo tutti soffrendo la crudele persecuzione del governo cinese. Riteniamo di avere la responsabilità di opporci e di difendere i diritti umani. Dall’istituzione della nostra chiesa nel 1991, i cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente hanno sofferto per le persecuzioni. Molti sono stati torturati, sottoposti a pesanti pressioni psicologiche e condannati al carcere. Alcuni dei nostri fratelli e sorelle sono detenuti nei campi di concentramento dello Xinjiang insieme agli uiguri. Oggi partecipiamo a questa manifestazione per esprimere loro la nostra solidarietà e il nostro sostegno».

Questo spirito di solidarietà abbondava alla manifestazione di Washington. L’umore era serio, perché milioni di persone stanno soffrendo per le persecuzioni. Ma era anche pieno di speranza, visto che così tante persone provenienti da ambienti diversi si stavano mobilitando per chiedere l’azione e tanti funzionari in Europa e negli Stati Uniti stanno finalmente ascoltando. Al grido di «Mai più!» e con l’impegno all’azione, i partecipanti sono stati stimolati a portare la loro lotta nel mondo e in Cina.

Contrassegnato con: Islam, Musulmani Uiguri

Paul Prososki
Paul Prososki

Paul Prososki è un consulente per gli affari di governativi, le campagne e l’advocacy. Ha lavorato a Washington e in tutto il mondo per oltre 20 anni.

Dal 2005 al 2015, Paul è stato nei Balcani come direttore residente dell’International Republican Institute (IRI) in Serbia e Bosnia. Durante quegli anni, Paul è stato a capo del più rispettato programma di ricerca sull’opinione pubblica condotto nella regione e consigliere dei principali partiti politici in cinque elezioni nazionali. Ha creato sette ONG di base per colmare le nicchie nell’advocacy e ha finanziato e consigliato numerosi altri gruppi nell’ambito delle riforme pubbliche. È stato consigliere di vari ministri per quanto concerne il mercato del lavoro e le riforme agricole in Serbia, l’adesione alla NATO del Montenegro e la liberalizzazione degli scambi in Bosnia. Paul ha inoltre svolto il proprio ruolo di consulente a Bruxelles, in Ungheria, Iraq, Giordania, Corea, Libano, Macedonia, Oman, Polonia, Slovacchia, Turchia e Ucraina.

Prima di entrare nell’IRI, Paul è stato capo economista e lobbista del team State Government Affairs per il think tank Americans for Tax Reform di Washington.

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