La polizia ha costretto quattordici Hui a disobbedire ai precetti morali della loro fede. Ora la persecuzione passa anche per la tortura psicologica
In luglio la polizia locale ha arrestato un imam e 13 musulmani in una moschea nella provincia di Gansu. Sono stati incarcerati e interrogati ripetutamente per diversi giorni. Ai detenuti è stato chiesto se fossero in contatto con persone straniere e se fossero state avvertite che pregare è consentito solo in moschea e soltanto su autorizzazione delle autorità. Durante la detenzione, gli agenti di polizia li hanno costretti a studiare i documenti del XIX Congresso Nazionale e altri scritti del Partito Comunista Cinese, pretendendo poi che si cibassero di maiale, animale proibito dall’islam poiché considerato impuro.
L’imam è stato separato dagli altri e incarcerato in un luogo segreto e remoto per essere interrogato; al luogo prescelto è stato portato con un cappuccio nero sulla testa. Secondo alcuni fedeli della sua moschea, il carcere avrebbe anche provocato nell’uomo danni mentali e fisici. Dopo il rilascio in moschea è del resto potuto tornare una sola volta.
«Quando la polizia ci ha costretto a mangiare maiale», ha detto un musulmano di etnia Hui del luogo, «proibendoci di indossare la taqiyah», ovvero il tradizionale copricapo tradizionale musulmano, solitamente di colore bianco, indossato per motivi religiosi, «ci siamo infuriati. L’abbiamo presa come una grave offesa alla fede e alla dignità personale. Io infatti non mangerò mai maiale nemmeno se per questo dovessi morire!»
Costringere i fedeli musulmani a mangiare maiale o a bere alcolici erano metodi spesso usati durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976): è stato per questo che molti imam hanno scelto la via estrema del suicidio. Ed è così che adesso torna ad accadere nei campi di “rieducazione” del Xinjiang.
Servizio di Ma Xiagu