Per giustificare la repressione della lingua e della cultura tibetane, il PCC riscrive la storia
Karma Tenzin
In marzo, in occasione del 60° anniversario dell’Insurrezione nazionale tibetana, il governo cinese ha pubblicato il cosiddetto “libro bianco”, ossia un documento autocelebrativo dal titolo La riforma democratica del Tibet sessant’anni dopo. Nel documento il governo confronta le condizioni socio-economiche e politiche del Tibet indipendente con l’attuale situazione sotto il proprio dominio coloniale.
I “libri bianchi” pubblicati dal PCC mirano a richiamare l’attenzione internazionale sui “lavori per lo sviluppo” imposti dal governo in Tibet. Nessun Paese al mondo si comporta come la Cina il cui governo chiede alla comunità internazionale di approvare la propria versione di sviluppo del Tibet. Perché Pechino si vanta continuamente dello sviluppo del Tibet se davvero lo considera una parte integrante del proprio territorio come una qualsiasi altra regione del Paese? Ciò implica chiaramente l’insicurezza del governo circa la legittimità del controllo politico che esercita sul Tibet agli occhi del mondo. L’ultimo “libro bianco” appunto sul Tibet affronta molte questioni che mirano ostinatamente a legittimare l’occupazione della regione e la successiva oppressione che ha avuto luogo negli ultimi 60 anni.
Uno dei capitoli, intitolato Solido sviluppo dell’istruzione, evidenzia i dati numerici di scuole e studenti. Tuttavia lo stato vero dell’istruzione in Tibet è molto diverso da quanto asserisce la propaganda del governo. La conservazione e la promozione della lingua tibetana sono scoraggiate e spesso le iniziative culturali in tal senso vengono criminalizzate senza prove, collegandole all’attivismo politico.
In aprile è stato arrestato uno studente tibetano colpevole di aver scritto un saggio per un esame del servizio civile in cui lamentava un calo delle opportunità di impiego pubblico per i tibetani in Tibet. Pare che il saggio sia diventato virale sui social media e che quindi l’Ufficio per l’istruzione tibetana abbia fatto arrestare lo studente nella sua stessa scuola.
Sonam ‒ questo è il suo nome ‒ si è concentrato sul declino delle opportunità di lavoro nei settori pubblici per i giovani diplomati tibetani. Il ragazzo conosce il tibetano (ha un master), ma ha dovuto scrivere il saggio in cinese, fattore che prova come nella regione la libertà sia conculcata e che dimostra quali opportunità di lavoro abbiano lì i diplomati tibetani formati dal sistema educativo cinese.
Nel 2015 Tashi Wangchuk, alfiere della lingua tibetana, è stato condannato a 5 anni di reclusione per avere criticato il misconoscimento dei diritti delle minoranze linguistiche garantiti dalla Costituzione cinese da parte del governo. In Tibet molti giovani tibetani, tra cui Wande Khar e Chagmo Kyi, si sono immolati per chiedere che ne fosse rispettato il diritto a preservare la lingua tibetana.
L’ultimo “libro bianco”, confrontando il Tibet prima e dopo l’occupazione, non accenna alla distruzione di migliaia di monasteri e altri centri di apprendimento che costituivano preziosi depositi di testi classici. Prima che le forze cinesi li distruggessero durante l’occupazione e la Rivoluzione Culturale, il Tibet vantava un numero di testi pubblicati tra i maggiori al mondo.
Lhasa, la capitale della regione, è la sede dei tre monasteri maggiori. Da essi sono uscite centinaia di migliaia di studiosi. Sera aveva 5500 monaci, Drepung ne contava 7700 e 3300 erano a Gaden. Oggi le severe restrizioni imposte al reclutamento di nuovi monaci in tutta la regione ne hanno ridotto la popolazione a solo poche centinaia di monaci.
Il “libro bianco” accenna pure acriticamente al fatto che la vecchia istruzione tibetana fosse un privilegio dell’aristocrazia. In realtà i monaci che vivevano nelle migliaia di monasteri esistenti in tutto il Tibet erano laici e la maggior parte di loro non apparteneva affatto a famiglie aristocratiche. Secondo un detto tradizionale tibetano, «se il figlio di una madre ha un potenziale, il trono di Gaden non ha proprietari».
Pechino ripete costantemente che nel Tibet di un tempo mancavano scuole moderne. L’affermazione potrebbe anche suonare vera, giacché il loro numero era piuttosto limitato, eppure non è affatto precisa. Infatti la Gyantse English School è stata fondata nel 1924 (si veda Shakabpa Wangchuk Deden Tsepon, One Hundred Thousand Moons: An Advanced Political History of Tibet, a cura di Henk Blezer, Alex McKay e Charles Ramble, vol. 2, Brill, Leida e Boston 2010, p. 809). Una scuola simile di lingua inglese era stata fondata a Lhasa nel 1944 (si veda L. Sergius Kuzmin, Hidden Tibet: History of Independence and Occupation, a cura di Andrey Terentyev, traduzione dal russo di Dmitry Bennett, Narthang, San Pietroburgo 2010, p. 149). Insomma, prima del 1950 a Lhasa esistevano parecchie altre scuole moderne.
Da ultimo va ricordato che il governo ha utilizzato diverse strategie per legittimare la propria occupazione del Tibet. La propaganda sullo sviluppo economico e sulla modernizzazione della società tibetana sono due di queste. Nella regione le politiche cinesi per l’istruzione hanno lo scopo di sinizzare gradualmente i tibetani. La protezione della lingua e della cultura tibetane non riguarda però solo i tibetani del Tibet. Un accesso adeguato alla ricca e profonda filosofia ed epistemologia buddhista è possibile solo tramite la lingua tibetana. Se Pechino continua ad adottare questa politica nei confronti della cultura e della lingua tibetane, non farà altro che esacerbare la resistenza. Prima che sia troppo tardi, il governo dovrebbe dunque pensare a proteggere il tibetano, una delle lingue e delle culture più antiche di cui il mondo può fare tesoro a beneficio di milioni di persone.