Le forze anti-PCC trionfano nelle elezioni. Ma la vera svolta, spiegano gli esperti locali, arriverà nel settembre 2020, quando gli elettori sceglieranno il nuovo Consiglio legislativo
di Marco Respinti
Hong Kong ha appena fatto la storia. La spettacolare vittoria ottenuta domenica 24 novembre dalla coalizione pro-democrazia sferra un primo colpo fatale all’establishment filo-PCC della Regione amministrativa speciale di Honk Kong, guidata dalla 62enne Carrie Lam (Lam-Cheng Yuet-ngor), eletta Capo dell’Esecutivo nel 2017 con il favore di Pechino. Ottenendo il 90% dei 452 seggi eletti nei 18 consigli distrettuali della Regione, l’opposizione ha completamente annullato il responso delle urne del 2015. Tra gli eletti vi sono noti leader della protesta democratica, tra cui Roy Kwong Chun-yu (il famoso attivista Joshua Wong Chi-fung è stato escluso dalla sfida, ma il suo sostituto ha vinto). E i più schierati sostenitori del governo filo-PCC, tra cui Junius Ho Kwan-yiu, hanno subito sconfitte cocenti. «Fuori dall’ufficio di Ho, ieri sera, c’era gente che applaudiva alla sua sconfitta», dice Pik Shan “Clarice” Pang, giornalista di Hong Kong, fra gli esperti che Bitter Winter ha intervistato.
Gli elettori della città-territorio si sono dunque schierati apertamente con i manifestanti, soprattutto giovani e studenti, che, dal 9 giugno, si ribellano al Fugitive Offenders Amendment Bill, il disegno per emendare la legge sull’estradizione avanzato dal governo. La proposta avrebbe infatti dato al governo di Hong Kong titolo per estradare i ricercati in Paesi con i quali la Regione non ha oggi accordi formali di estradizione. Inutile dire che uno di questi Paesi è la Cina, e i lettori di Bitter Winter capiscono subito cosa quella legge potrebbe significare non per i criminali veri, ma per gli oppositori che il PCC vuole riportare in Cina, compresi i fedeli dei gruppi religiosi e delle minoranze etniche perseguitate.
L’inizio della fine? O una vittoria di breve durata?
Dopo settimane di repressioni e di violenze (a volte letali), Hong Kong ha ora raggiunto il punto di non ritorno. Il disegno di legge sull’estradizione è stato formalmente ritirato il 23 ottobre, ma la sua presentazione ha di fatto scatenato una protesta ben più ampia, il cui obiettivo è la capillare intrusione della Cina nella vita quotidiana di Hong Kong.
Qualunque cosa accada ora, però, Hong Kong non può tornare indietro. Del resto a Pechino nemmeno il PCC può tirarsi indietro. Il Partito non può cioè continuare la campagna contro Hong Kong come se nulla fosse accaduto. Né la polizia filo-PCC di Hong Kong può semplicemente continuare a picchiare, arrestare e uccidere la gente all’infinito. E comunque sia, il PCC non può neanche semplicemente lasciar perdere. Dunque, mentre Carrie Lam dice che adesso l’Esecutivo di Hong Kong deve «riflettere seriamente» sul trionfo delle forze democratiche, e Pechino laconicamente che Hong Kong è e rimane parte della Cina, quel che accadrà nei prossimi giorni sarà decisivo. Dunque gli eventi di quest’anno a Hong Kong segneranno l’inizio della fine del regime comunista cinese o il PCC vorrà schiacciare un popolo intero di fronte a tutto il mondo?
«La vittoria schiacciante dei pan-democratici (così l’opposizione chiama se stessa) è una chiara indicazione della volontà dei cittadini di Hong Kong di esautorare un sistema politico ingiusto, che mina le libertà della città», dice a Bitter Winter Edward C.K. Chin, amministratore di hedge fund a Hong Kong e principale organizzatore del gruppo “2047 HK Monitor”, parlando dal fronte caldo di questa battaglia per i diritti umani e per la democrazia, che documenta con foto scattate alla vigilia delle elezioni. «Ma questa vittoria potrebbe essere di breve durata, poiché la politica generale del PCC su Hong Kong è volta ad eliminare i valori fondamentali della città, cosa, questa, che genera profonda inquietudine».
Né sono molto dissimili le osservazioni di John Patterson, direttore di “Hong Kong Watch”, raccolte da Bitter Winter. «Le elezioni del Consiglio distrettuale sono state essenzialmente un referendum sulla popolarità del governo di Hong Kong», afferma. «Il terremoto elettorale mostra quanto profonda sia la rabbia per come le proteste siano state gestite in maniera incompetente. È giunto insomma il momento del suffragio universale, cosa peraltro chiesta nel 2014 dal cosiddetto “Movimento degli ombrelli”: la risposta di allora fu però una repressione poliziesca ancora maggiore. Serve del resto un’indagine indipendente sulle brutalità commesse dalla polizia».
Chi è caduto non sarà dimenticato
«Non riesco a esprimere la mia felicità per la grande vittoria ottenuta dal campo democratico. Ha conquistato 388 dei 452 seggi in palio. L’affluenza è stata del 71,2%, una cifra da record: significa che hanno votato oltre 2,9 milioni di persone (laddove nel 2015 furono 1,4 milioni, ovvero il 47%)». Chi parla è Pik Shan “Clarice” Pang, giornalista indipendente nata e cresciuta a Hong Kong, specializzata in reportage sulla Cina su temi quali la criminalità nelle città, i diritti dei lavoratori e le questioni ambientali. Ha seguito attentamente le proteste per la democrazia sin dall’inizio e adesso osserva: «A Hong Kong abbiamo versato anche troppo sudore, sangue e lacrime sin da giugno. Adesso le urne mostrano con chiarezza i cambiamenti decisivi per la nostra società che la gente chiede con urgenza: una società, la nostra, che deve abbracciare pienamente la democrazia, rispettare il rule of law e valorizzare i diritti umani. Questo risultato straordinario mi tocca davvero nel profondo: finalmente le nostre voci sono state ascoltate».
Cosa accadrà adesso a Hong Kong? «Spero», risponde la giornalista, «che il personale politico eletto possa occuparsi delle brutalità della polizia, possa provare a premere sul governo affinché questo problema venga affrontato e possa avviare indagini indipendenti sull’uso esagerato della forza da parte delle forze dell’ordine. Sono stati eletti molti volti nuovi. È infatti gente giovane che potrebbe non avere l’esperienza necessaria per servire adeguatamente la comunità. Non importa: speriamo solo che siano tanto umili da chiamare accanto a sé altri politici esperti, magari qualcuno di coloro che non è riuscito a farsi eleggere, ma che ora potrebbe collaborare in qualità di consigliere e offrire suggerimenti utili sui modi concreti necessari per affrontare i nostri problemi».
Clarice pensa subito anche ai caduti. «Dedicheremo questo risultato positivo a chi ha sacrificato la propria vita per difendere i valori di Hong Kong. Molti erano giovani: sono morti troppo presto e non hanno potuto godersi questa vittoria. Non li dimenticheremo mai e continueremo la battaglia per loro».
Tornando alla politica, la giovane giornalista e attivista osserva che «i risultati mostrano come gli elettori che vivono nelle aree più interessate dalle proteste abbiano scelto candidati favorevoli alla piazza. Il risultato ridimensiona la versione di Pechino, che continua a dipingere i manifestanti come una massa di violenti. Di fatto sono stati registrati più casi di violenza da parte della polizia che non da parte dai manifestanti. La violenza della polizia è una delle questioni determinanti che hanno spinto il voto in direzione contraria ai politici filo-PCC, i quali si sono coordinati con la polizia e hanno persino assunto malviventi per aggredire la gente pacifica di Hong Kong».
La sfida continua
«La propaganda di Pechino», aggiunge Pang, «ha peraltro finito per trasformarsi in disinformazione, la quale ha a propria volta alterato la percezione di quanto stava accadendo sul campo da parte sia del PCC sia dei suoi alleati di Hong Kong». Un esempio? «Il New People’s Party (NPP) è una formazione filo-PCC di Kong Kong. Ha presentato candidati in 20 seggi ed è stato sconfitto sempre. Negli ultimi mesi aveva appoggiato le azioni della polizia e così ha finito per perdere ovunque. La sua presidente, fondatrice del partito nel gennaio 2011, Regina Ip Lau Suk-yee, viene considerata altamente divisiva. Dopo la cocente sconfitta ha dichiarato che il suo partito è “finito”. Quello che voglio dire è che, dopo il voto, Pechino sta vivendo un momento di forte imbarazzo. Temo però che il regime guidato dal PCC possa reagire imponendo una stretta ancora più pesante invece che ammorbidire i toni».
Il processo non si ferma comunque qui, aggiunge Pang. «Tra un anno, nel settembre 2020», spiega, «Honk Kong celebrerà le elezioni per il Consiglio legislativo (LegCo), l’assemblea parlamentare unicamerale della Regione che conta 70 membri: metà eletti da collegi elettorali stilati su base geografica e metà da collegi elettorali istituzionali (professionisti o persone giuridiche prescelte). Al momento 26 di questi seggi sono controllati dal campo democratico e 42 dai partiti favorevoli all’establishment. Sono dunque questi ultimi a dominare il processo legislativo. Il prossimo anno i cittadini di Hong Kong dovranno affluire alle urne ancora in grandi percentuali per garantire un maggiore equilibrio interno al LegCo. Dal momento però che le elezioni influenzeranno direttamente la stabilità dell’attuale governo filo-Pechino, che farà l’esecutivo, proverà a squalificare tutti i candidati democratici? Li arresterà per motivazioni politiche? Oppure cambierà le regole proprio alla vigilia del voto? Sarà un anno interessante…».
Ovviamente non ci sono limiti alle manovre malvagie che il PCC potrà mettere in campo. Le violazioni dei diritti umani di cui è colpevole parlano da sole. Certamente il PCC potrebbe non volere una seconda Tiananmen proprio nel trentesimo anniversario di quell’eccidio. Ma, dichiarando il giorno dopo la sconfitta elettorale, durante una conferenza stampa di routine, che «il governo centrale cinese sostiene senza esitazione il governo del Capo dell’Esecutivo della Regione amministrativa speciale, Carrie Lam», il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Geng Shuang, non intendeva senz’alcun dubbio niente di buono per il popolo di Hong Kong.