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La Cina sfrutta i prigionieri per produrre beni destinati all’export

27/07/2020Lu An |

I fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente raccontano che, quando erano detenuti a causa della fede che professano, hanno prodotto beni per aziende straniere

di Lu An

Detenuti al lavoro nello stabilimento tessile di una prigione
Detenuti al lavoro nello stabilimento tessile di una prigione (Immagine tratta da Internet)

In quasi tutte le carceri del Paese sono state costruite fabbriche e officine in cui i detenuti realizzano prodotti destinati al mercato locale ed estero. Per di più le prigioni sono in competizione fra loro e questo comporta orari insopportabilmente lunghi per i detenuti, che vengono sottoposti al lavoro forzato e a forme di oppressione persino più dure.

Secondo i racconti degli ex detenuti, le condizioni di lavoro nelle fabbriche delle prigioni sono al di sotto di qualsiasi standard ragionevole e gli operai godono a stento delle cure mediche. Senza tali costi aggiuntivi, e poiché le società di intermediazione cinesi si occupano di fornire le materie prime per la produzione, le carceri generano alti profitti, senza dover sostenere spese se non per le utenze e per il cibo destinato agli operai, sottoposti ai lavori forzati. Tali profitti, però, vengono realizzati al prezzo della salute dei detenuti e talvolta della loro stessa vita. Ora, mente denunciano gli abusi dei diritti umani che avvengono in Cina, molti consumatori in Occidente potrebbero trovarsi a utilizzare beni prodotti dai prigionieri torturati e sfruttati.

I legami con le aziende straniere nascosti dietro gli intermediari cinesi

Una fedele trentenne della Chiesa di Dio Onnipotente (CDO) ha raccontato a Bitter Winter che lo stabilimento della prigione, in cui è stata rinchiusa a causa della fede che professa, riceve molti ordini grazie ai bassi costi di produzione. Alcune società dell’Hebei, del Guangdong, del Jiangsu e di altre province hanno intrattenuto rapporti commerciali a lungo termine con la prigione. Secondo lei, tra i clienti vi sono anche compagnie straniere, benché l’amministrazione tenti di nascondere questa circostanza.

«Gli abiti destinati agli europei e agli statunitensi hanno uno stile differente e di solito hanno taglie più grandi» ha spiegato, «è chiaro che non sono realizzati per il mercato cinese». La donna ha aggiunto che la maggior parte delle volte gli indumenti che doveva confezionare in carcere erano privi di etichetta, ma talvolta avevano cartellini con i prezzi in euro e riportavano la scritta «Made in China».

«Qualche volta l’addetto al controllo qualità in fabbrica ci ha detto che ogni processo di produzione doveva essere sottoposto a doppia verifica, su precisa indicazione dei clienti stranieri», ha continuato la donna. «Spesso la produzione per le società straniere veniva fermata per problemi legati alla qualità. Quando ciò accadeva, la prigione doveva dare un resoconto in proposito alle società cinesi che avevano portato i clienti stranieri. Questi intermediari, e non l’amministrazione del carcere, erano in contatto diretto con l’estero».

La fabbrica non produceva soltanto abbigliamento, ma anche plafoniere, scatole per il confezionamento e borsette. Molti di questi prodotti erano destinati all’esportazione. Le quote di produzione erano in continuo aumento, e le guardie addette alla supervisione che avessero fatto in modo di raggiungerle sarebbero state premiate con dei bonus. «Veniva da piangere amaramente a tutti quanti, ogni volta che ci erano assegnate nuove, sconvolgenti quote», ha raccontato la fedele della CDO intervistata.

Le prigioni, spinte dal profitto, sfruttano i detenuti come schiavi

Un’altra fedele della CDO, anch’ella sulla trentina, rilasciata di recente dopo un periodo di detenzione in una località della Cina centrale, ha raccontato a Bitter Winter che ogni mese arrivavano continuamente nuovi ordinativi destinati allo stabilimento del carcere. Tutto grazie ai bassi costi di produzione. La donna ha ricordato che il magazzino spesso era pieno e i materiali venivano conservati nel campo da pallacanestro, che spesso era completamente occupato.

Ai prigionieri venivano assegnate quote di produzione elevate e spesso dovevano lavorare più 13 ore al giorno. Quando gli ordini erano numerosi, talvolta venivano concesse solo tre ore di riposo prima di tornare al lavoro.

Una volta la donna ha ricevuto la quota di produzione giornaliera di 1.300 collari. Un giorno, è svenuta per lo sfinimento e ha battuto la testa contro un contenitore di ferro. Dopo una rapida visita all’infermeria della prigione per bendare la ferita che sanguinava, la donna è stata costretta a riprendere il lavoro.

«Non è raro che i prigionieri svengano in officina», ha aggiunto l’ex detenuta. «In due casi estremi, un prigioniero è caduto a terra mentre stava lavorando ed è morto sul colpo, mentre l’altro ha avuto un collasso improvviso ed è morto in mensa, mentre stava mangiando.

L’amministrazione del carcere ha emesso una dichiarazione generica, affermando che fossero morti per malattie insorte improvvisamente, per impedire che i prigionieri discutessero dell’accaduto. I responsabili trattano i prigionieri come formiche, la cui vita non ha valore».

Per migliorare l’efficienza lavorativa in vista di maggiori guadagni la prigione introduceva di continuo nuovi sistemi di controllo e punizione dei detenuti. «Chi chiacchierava o si guardava intorno durante il lavoro poteva essere picchiato, torturato, costretto a copiare per punizione il regolamento del carcere oppure rimproverato davanti agli altri prigionieri», ha spiegato la fedele. «Venivano decurtati dei punti per ogni “misfatto” e ciò implicava che i prigionieri avevano poche possibilità di vedersi ridotte le condanne. Erano limitati persino il numero di volte e il tempo per usare il gabinetto».

Il tempo per i pasti era limitato a cinque minuti, e spesso i detenuti si scottavano la bocca con il cibo bollente. Sproporzionato rispetto al lavoro duro, il vitto era pessimo e poco nutriente: porridge, sottaceti, panini al vapore e zuppe di verdura acquose. Chi si lamentava veniva picchiato ferocemente, riportando talvolta ferite lente a guarire. La credente ha raccontato che alcuni detenuti hanno tentato il suicidio, poiché non riuscivano più a vivere in tali condizioni insopportabili.

Dopo sei anni di carcere, la donna ha sviluppato reumatismi, disturbi al rachide cervicale e altre malattie che colpiscono comunemente la maggior parte dei detenuti sottoposti ai lavori forzati per lungo tempo. Anche i disturbi cardiaci di cui già soffriva sono peggiorati e la donna soffre ora di emicranie croniche.

Numerosi ex detenuti di una prigione che gestisce uno stabilimento per la produzione di capi di abbigliamento hanno raccontato a Bitter Winter che, poiché l’officina era ventilata in maniera insufficiente, la polvere che proveniva dai materiali svolazzava ovunque e gli operai la inalavano fin nei polmoni. In inverno faceva freddo e in estate faceva caldo. Per questo molti dei detenuti hanno sviluppato malattie polmonari, mentre altri hanno iniziato a soffrire di forti dolori alla schiena per aver lavorato in posizioni scomode per lunghi periodi, senza intervalli.

Contrassegnato con: Chiesa di Dio Onnipotente, Detenzione in Cina

Lu An

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