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La nuova rieducazione degli uiguri: lavori forzati fuori dallo Xinjiang

10/03/2020Li Mingxuan |

Gli uiguri sono stati mandati a lavorare in tutta la Cina, contro la propria volontà, dove vengono tenuti sotto stretto controllo e vivono in condizioni simili a quelle dei campi di internamento

Di Li Mingxuan

Uiguri al lavoro nell’officina
Uiguri al lavoro nell’officina di una fabbrica nella provincia dell’Hubei (Immagine tratta da Internet)

Nel pieno della recessione causata dalla diffusione del nuovo coronavirus, il PCC sta spedendo i musulmani della Regione autonoma uigura dello Xinjiang ad altre aree del Paese, per lavorare nelle fabbriche. Secondo un servizio di Radio Free Asia, l’amministrazione dello Xinjiang sta costringendo gli uiguri a trasferirsi nelle province dello Hunan, dello Jiangsu, del Jiangxi e del Zhejiang, in quella che potrebbe essere parte di uno sforzo per aumentare la produzione, a prescindere dai rischi posti dal virus.

La BBC cita l’Australian Strategic Policy Institute, che definisce questa mossa come «la prossima fase della rieducazione cinese degli uiguri» e stima che fra il 2017 e il 2019, nell’ambito della politica chiamata Aiuti per lo Xinjiang, «più di 80mila uiguri siano stati trasferiti dalla regione autonoma estremo occidentale dello Xinjiang per lavorare nelle fabbriche in tutta la Cina». Alcuni sono stati inviati direttamente dai campi per la trasformazione attraverso l’educazione.

Un giovane uomo uiguro che lavora in una fabbrica nella provincia orientale dello Shandong, ha detto a Bitter Winter che centinaia di uiguri lavoravano lontano da casa, assieme a lui, per confezionare prodotti destinati all’esportazione in Europa, Giappone e Stati Uniti d’America. La dirigenza della fabbrica era di etnia han e gli han non lavoravano alle catene di montaggio, a causa delle condizioni pericolose per la salute; solo gli uiguri vi lavoravano.

«Non voglio stare qui; il lavoro è duro, il salario è basso e il controllo è rigoroso», ha detto l’uomo a Bitter Winter. Ha aggiunto che possedeva un negozio nella sua città natale e che guadagnava bene, ma l’amministrazione lo ha spedito in questa fabbrica contro la sua volontà.

Un gran numero di telecamere di sorveglianza è stato installato nella fabbrica. La polizia locale ha sequestrato le carte di identità degli uiguri al momento del loro arrivo, non sono più potuti uscire senza permesso e se lo fanno possono essere incarcerati.

«Dobbiamo presentare una richiesta scritta se vogliamo uscire», continua l’uomo. Quando viene permessa loro un’ora d’aria, un capo squadra, incaricato dalla polizia nello Xinjiang, applica agli operai un braccialetto elettronico per il monitoraggio, connesso con un’applicazione dei loro telefoni cellulari. I lavoratori vengono puniti, se il braccialetto smette di funzionare, quando sono lontani dalla fabbrica, o non tornano indietro entro un orario stabilito.

«Quelli che protestano e disobbediscono sono picchiati furiosamente finché non si reggono più in piedi», dice un dirigente di una fabbrica. «Dopo un po’, la gente diventa servile e nessuno osa più arrivare in ritardo».

Ha aggiunto che un dipendente è designato al controllo della posta degli uiguri, perché il governo vuole essere certo che non parlino di nulla che possa essere considerato “pericoloso o sedizioso”. I lavoratori uiguri sono costretti a imparare il cinese e nel tempo libero sono indottrinati con la propaganda del PCC dagli agenti di polizia dello Xinjiang.

Il dirigente ha anche rivelato che gli uiguri ottengono il permesso di tornare a casa per visitare i famigliari solo dopo un anno di lavoro nella fabbrica. Non possono tornare a casa senza permesso, nemmeno se un parente muore. Quelli che sono abbastanza fortunati da ottenere un permesso di visita e non rientrano in tempo, sono scortati indietro a forza. Chi oppone resistenza viene spedito in un campo di internamento.

«Dal 2016, il governo sta assumendo lavoratori dallo Xinjiang nel nome dell’“alleviamento della povertà”, un metodo occulto per controllarli», continua il dirigente. «Coloro che vengono assunti devono lasciare la casa e ogni insubordinazione può farli finire in galera».

Un funzionario locale dello Xinjiang ha confermato queste dichiarazioni. Ha detto che le autorità impongono ai giovani uiguri nello Xinjiang di lavorare in diverse province, che lo vogliano o no. Una quota di lavoratori viene assegnata per ogni villaggio. Per esempio, ogni nucleo familiare uiguro della prefettura di Hotan, nello Xinjiang, deve fornire un suo membro a lavorare fuori regione.

In queste fabbriche, le pratiche religiose sono assolutamente vietate. In una di esse nella provincia nordorientale del Liaoning, un uomo di etnia hui è stato indagato dalla polizia per aver invitato i suoi colleghi uiguri a partecipare a un rito religioso.

«Qui le condizioni sono quasi le stesse che in un campo di rieducazione», lamenta un uiguro che lavora fuori dallo Xinjiang.

Alcuni funzionari dell’amministrazione dello Xinjiang hanno dichiarato che solo gli uiguri disoccupati vengono impiegati per lavori nel resto della Cina, perché «costituiscono quella forza lavoro in eccesso che è pericolosa per il mantenimento della stabilità sociale». Dunque, mandarli in altre province per lavorare sotto la supervisione statale, «può aiutare ad alleviare la povertà e rallentare la diffusione dell’estremismo religioso e della violenza razziale».

«Alcune donne uigure cercano lavoro nell’edilizia per evitare di essere spedite in altre province», dice a Bitter Winter un dirigente di un’azienda edile nella prefettura di Hotan. «A loro non importano i salari bassi, finché possiamo dare loro un contratto che provi che hanno un lavoro nello Xinjiang. Talvolta, anche quando sono impiegate, il governo le costringe ugualmente a lavorare fuori dallo Xinjiang».

 

Contrassegnato con: Musulmani Uiguri

Li Mingxuan

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