Campaign for Uyghurs, presieduto da Rushan Abbas, offre prove delle politiche criminali condotte dal PCC e invoca un processo internazionale
di Marco Respinti
Come si chiama una campagna intenzionale e pianificata tesa a spazzare completamente via un’intera porzione del genere umano, identificata in base a criteri etnici, religiosi o culturali? Sin dai tempi di Raphael Lemkin (1900-1959), l’avvocato e giurista polacco che coniò il termine per individuare con precisione i crimini contro gli ebrei perpetrati dai nazisti negli anni 1930 e 1940, la parola è «genocidio».
Il termine ha una valenza morale, giuridica e persino filosofica. Un «genocidio» non implica infatti soltanto il massacro di un grande numero di persone, cosa già sufficientemente orribile e che sfortunatamente è accaduta diverse volte nel corso della storia. Un massacro viene chiamato «genocidio» se implica l’intenzione di cancellare un’intera comunità umana, pianificando e realizzando questa finalità nel modo più sistematico e scientifico possibile. In quanto tale, il «genocidio» è il prodotto di una ideologia e dunque tipico dell’evo moderno, nonostante la nostra pretesa di vivere, da un paio di secoli, nell’“era della democrazia”.
Lo storico francese Reynald Secher è uno dei massimi esperti del primo genocidio della storia, lo sterminio sistematico dei cattolici in Vandea tra il 1793 e il 1794, al tempo della Rivoluzione francese. Elaborando la nozione di «genocidio», lo studioso ha creato un altro neologismo, «memoricidio», ovvero la distruzione addirittura del ricordo dei gruppi umani vittime di genocidio, onde cancellarne tracce e testimonianze dalla storia.
Sviluppando ulteriormente questi materiali, altri studiosi si sono di recente spinti ancora più in là fino a introdurre la nozione di «genocidio culturale», ovvero il tentativo di annientare una intera popolazione e intera cultura ancora prima e al di là dello sterminio fisico.
È quanto sta accadendo nello Xinjiang, la regione abitata prevalentemente da uiguri e da altre minoranze turcofone musulmane che essi preferiscono chiamare Turkestan orientale. Proprio per questo, alcuni avvocati ritengono che il regime comunista cinese possa e debba essere portato il prima possibile davanti alla Corte penale internazionale, nonostante la Cina non abbia firmato il trattato che la istituisce.
Ora su questa realtà esiste un uovo rapporto, Genocide in East Turkistan, pubblicato da Campaign for Uyghurs, la ONG fondata e presieduta oggi a Washington da Rushan Abbas.
Il rapporto illustra ciò che Bitter Winter ha costantemente raccontato negli ultimi mesi. L’intento del PCC di distruggere un’intera popolazione non si è fermato nemmeno davanti alla pandemia di COVID-19. I musulmani nello Xinjiang sono stati e ancora sono aggrediti in tutti i modi possibili. Intimidazioni, carcerazioni illegali, discriminazioni religiose e culturali, e persino pratiche umilianti come l’essere costretti a cibarsi di carne di maiale e a bere alcolici (cose che l’islam vieta), nonché a trasformare l’arredamento delle proprie abitazioni dallo stile uiguro tradizionale a uno scadente stile occidentalizzato. E chi osa protestare viene spedito nei terribili campi per la trasformazione attraverso l’educazione.
Nel rapporto viene posta enfasi particolare sul destino che tocca alle donne uigure, un argomento che Rushan Abbas ha molto a cuore e di cui ha trattato pure in un recente articolo su Bitter Winter. Un milione di quadri han del PCC è stato mandato a vivere nelle famiglie uigure onde controllarne la vita quotidiana. Il Partito ha soprannominato l’operazione “Programma raddoppio parenti” (perché le famiglie uigure vengono così ad avere sia parenti di sangue sia falsi parenti imposti dal PCC) e può significare che le ragazze e le donne uigure vengano obbligate a condividere il letto con le spie, con conseguenze non difficili da prevedere. Anche la piaga dei matrimoni imposti tra cinesi han scelti dal PCC e donne uigure è pratica ordinaria, e questo genera ancora altre sofferenze. Del resto, come Campaign for Uyghurs denuncia, spesso tutto questo finisce in null’altro che stupri.
Oggi i rapporti sulla persecuzione contro gli uiguri sono numerosi, ma la particolarità di Genocide in East Turkistan è l’attenzione specifica posta sugli effetti a medio e a lungo termine della politica praticata dal PCC nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang. Le parti più importanti del dossier sono infatti l’introduzione, dedicata al concetto giuridico di «genocidio», e i capitoli in cui viene chiaramente dimostrata l’intenzione genocida del PCC. Fra gli esempi citati vi sono gli sforzi messi in atto per distruggere le famiglie, la deportazione e la rieducazione dei bambini uiguri i cui genitori e parenti sono già stati inviati nei campi, e le sterilizzazioni e gli aborti forzati imposti per prevenire la nascita di nuovi uiguri.
«Questi crimini», conclude il rapporto, «debbono essere portati davanti a una Commissione internazionale e i loro autori debbono essere perseguiti dalla Corte internazionale di giustizia». Altrimenti, come il defunto leader uiguro Isa Yusuf Alptekin (1901-1995) ha avuto occasione di scrivere, «il mio popolo corre il grande pericolo di essere distrutto. E se il mio popolo non riesce a sfuggire al pericolo della distruzione, soccomberà».