Lo scorso agosto abbiamo festeggiato la decisione del Kazakistan di non deportare questa coraggiosa profuga musulmana, ma Pechino non si è arresa
Massimo Introvigne
Il 6 agosto Bitter Winter ha dato notizia di un giudice che in Kazakistan aveva impedito la deportazione in Cina di Sayragul Sauytbay, una donna musulmana cinese di origine kazaka, fuggita da uno dei temuti campi per la trasformazione attraverso l’educazione. La donna aveva attraversato il confine tra Cina e Kazakistan con un passaporto falso il 21 maggio ed era stata arrestata. Bitter Winter si è quindi unito alle celebrazioni per questa importante vittoria per i diritti umani.
Ma il PCC non si è arreso. Dapprima si è saputo che in Cina diversi membri della sua famiglia erano stati arrestati. Si tratta di una misura di rappresaglia comune che viene normalmente impiegata quando i casi dei rifugiati vengono pubblicizzati dai media. Poi, dopo mesi di silenzio, in un’intervista rilasciata a Foreign Policy, la Sauytbay, ha rivelato che «un piccolo gruppo di persone, a lei sconosciute, era andato a casa sua dopo il processo dicendole di tacere. Il drappello, che parlava kazako, aveva menzionato vagamente certe politiche adottate governo cinese nello Xinjiang, dicendo che se avesse parlato ancora ci sarebbero state conseguenze per lei e la sua famiglia ».
L’avvocato della donna, presumibilmente intimidito, ha poi iniziato a “mancare” e quindi la richiesta di asilo presentata dalla Sauytbay non è stata ancora concessa, nonostante suo marito e i loro due figli siano cittadini kazaki. Nell’intervista a Foreign Policy, accennando alle pressioni cinesi, la donna afferma del resto che l’asilo potrebbe non venirle concesso mai e teme seriamente di poter essere espulsa in qualsiasi momento.
In effetti la Cina ha organizzato una campagna di fake news in Asia centrale che non ha precedenti, unita tra l’altro a pressioni economiche, nel tentativo di negare l’esistenza dei campi per la trasformazione attraverso l’educazione (se non nella forma inoffensiva di “scuole”). Tra l’altro, benché tra i detenuti nei campi vi siano anche dei kirghisi, il ministro degli Esteri del Kirghizistan ha dichiarato pubblicamente che l’esistenza dei campi «non è confermata».